In un’altrimenti anonima giornata estiva, qualche tempo fa, sui terminali finanziari è rimbalzata una notizia per certi versi epocale: con un Pil di 1.335 trilioni di dollari, nel secondo trimestre 2010 la Cina ha superato il Pil del Giappone. A qualche desk dalla mia postazione, un piccolo gruppo di operatori, sorpresi dall’annuncio, ha iniziato a discutere con gli occhi incollati allo schermo. Sul nuovo traguardo dell’inarrestabile gigante asiatico, era necessario prendere una posizione. Si trattava di rispondere a una domanda secca: l’economia cinese, la locomotiva rossa, era pronta a trainare l’economia mondiale?



Il fronte del sì, entusiasta, scommetteva su un boom delle importazioni cinesi. Le economie occidentali, così come quelle emergenti, sarebbero uscite dal guado della crisi grazie all’insaziabile appetito del Dragone. Passai in rapida rassegna i blog dei più rispettati economisti del momento. Qualcuno di loro si lanciava in scenari futuribili: nuove città, la nascita di una classe media, i consumi urbani pronti a riportare in carreggiata le aziende di mezzo mondo.



Il fronte del no, più reticente, si mostrava scettico ma esitava a esporre le proprie argomentazioni. Un passo indietro. Chiunque abbia attraversato i vicoli di Soho, nel cuore della china-town londinese, conosce la birra Tsingtao. I suoi manifesti pubblicitari sono appesi un po’ ovunque: sui muri dei locali, sulle carene dei risciò, tra le anatre spennate appese alle vetrine dei take-away.

Alcuni mesi fa, durante un pranzo di lavoro in compagnia di un trader cinese, ho scoperto che Tsingtao è il nome di una città. Il trader cinese, che aveva assunto il nome occidentale di Kenny, era originario di laggiù. Mentre me lo diceva, Kenny scosse il suo faccione da panda: «Non preoccuparti se non la conosci – mi tranquillizzò – Tsingtao ha “solo” tre milioni e mezzo di abitanti».



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Chiesi se la birra Tsingtao era in qualche modo legata alla città omonima. Gli occhi di Kenny si illuminarono: il birrificio era basato proprio là, nel cuore del distretto industriale. Era stato costruito a inizio novecento da imprenditori bavaresi chiamati a produrre in quella che all’epoca era una colonia tedesca. Kenny concluse con due annotazioni che mi stupirono. La prima: il birrificio originale, nazionalizzato con l’affermarsi del regime, era ancora funzionante. La seconda mi colpì ancora di più: Kenny, avendo ricevuto la possibilità di terminare i propri studi all’estero, aveva scelto l’università di Francoforte, incuriosito da quel paese che cento anni prima aveva costruito un birrificio all’altro capo del mondo, nella sua città natale.

 

Prima di ritornare alla domanda iniziale e magari tentare una risposta, sono necessari un po’ di numeri. Gli economisti che restano scettici sulle capacità del Dragone si basano fondamentalmente su tre dati: il numero di appartamenti sfitti in Cina, il saldo della bilancia commerciale e l’importo di riserve in dollari depositate presso la banca centrale cinese.

Ne aggiungo un quarto, da cui vorrei iniziare l’analisi numerica: il reddito pro capite cinese nel 2010 si assesterà a 3.600 dollari, ben al di sotto di quello giapponese (37.800). Questo primo confronto può apparire ovvio: sebbene il Pil cinese abbia superato quello nipponico, la popolazione del Giappone è una minuscola porzione del miliardo e trecento milioni di persone che oggi vivono in Cina. Tuttavia, questo raffronto permette di mettere a fuoco un aspetto fondamentale: l’unità di misura.

Parlando di Cina, ci siamo ormai abituati a cifre astronomiche: basti pensare che dalle prime riforme del 1978 l’economia del Dragone è cresciuta in media del 9,5% all’anno. Eppure, dicevamo, resta la questione dell’unità di misura: quando confrontiamo dati macroeconomici, qual è il minimo comun divisore di tutti questi numeri? La crisi del 2007 ci ha insegnato che questo elemento irriducibile è l’individuo. Guardati in questa prospettiva, i dati macroeconomici riportati dai cino-scettici aiutano a comprendere quale sfida ci attende, quando parliamo di ripresa.

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Il numero di case sfitte, innanzitutto. In Cina in questo momento 65,4 milioni di abitazioni non sono occupate. Tra queste, la maggior parte era stata originariamente acquistata a fini di investimento, scommettendo sull’urbanizzazione delle masse cinesi (termine orribile, ma per descrivere fenomeni “ottocenteschi” un certo lessico è di aiuto). Il secondo elemento è il saldo positivo della bilancia commerciale: +28,7 miliardi di dollari stimati per il 2010. La Cina esporta, si sa. Ma cosa esporta? La qualità dell’export è migliorata? I dati sulle riserve monetarie cinesi parlano di 2,45 trilioni di dollari a disposizione della banca centrale. Il fatto che si tratti di dollari risponde già alla domanda.

La Cina acquista valuta statunitense per svalutare artificialmente lo yuan. Lo scopo è raggiunto attraverso la vendita in blocco di valuta nazionale e il corrispettivo acquisto di dollari. Insomma, niente di nuovo sotto il sol levante: per spingere fuori prodotti a basso valore aggiunto, è necessario uno yuan debole. Sulle ripercussioni monetarie di tale artificio si è molto discusso: le ingenti riserve di dollari sono sistematicamente reinvestite in titoli di stato statunitensi, contribuendo così in modo decisivo alla crescita fuori misura del debito americano. In un tale sistema produttivo il primo fattore che è tenuto a “basso costo”, è proprio il fattore umano.

Una produzione a basso valore aggiunto, infatti, implica uno scarso investimento sulle capacità delle persone. E’ una scommessa al ribasso che, come testimoniano 65 milioni di case vuote, può essere persa. Riuscirà la Cina a tirarci fuori dalla crisi? Senza portare la persona al centro dello sviluppo economico, neppure un miliardo di nuovi consumatori saranno sufficienti: la Cina ha bisogno delle imprese europee almeno quanto queste ultime abbiano bisogno di un nuovo traino economico.

 

Nel drappello di colleghi, qualcuno, cogliendo il problema, sollevò l’argomento senza troppa convinzione. Per qualche motivo, discutere di investimenti sulle persone, nel mezzo di una sala mercato, appariva fuori luogo. Eppure la storia di Kenny e del birrificio di inizio secolo sembrano affermare il contrario: curiosità e libertà di rischiare sono determinanti per affrontare una sfida con successo. Vale oggi per un ragazzo arrivato dall’altro capo del mondo, così come valeva cent’anni fa, quando un gruppo di imprenditori bavaresi finì per produrre la birra più bevuta in Cina.