Fino a che punto le regole di Basilea 3 peseranno, in concreto, sulle prospettive della ripresa economica? E, in particolare, sulle prospettive delle piccole e medie imprese? Davvero le banche saranno costrette a rivedere, verso il basso, la loro politica già avara verso l’economia reale? O, al contrario, la montagna ha partorito un topolino che non inciderà sui bilanci dei grandi colpevoli della crisi. Ma anzi, al contrario ha offerto loro un pretesto per dire di no ai clienti commerciali, senza intaccare la speculazione?



Domande difficili, che meritano però di essere affrontate. Con un approccio internazionale, perché la partita delle Pmi e della ricaduta politica del loro malessere a seguito della grande crisi va assai al di là dell’orizzonte italiano.

1) Il caso vuole però che, proprio dopo il via libera alle regole di Basilea da parte dei grandi banchieri centrali, riprenda ad avanzare sotto i cieli del Bel Paese, dopo tante battute d’arresto, il progetto della Banca del Sud che, salvo nuove sorprese, potrebbe veder la luce dentro il guscio del Medio Credito Centrale, o Mcc, già istituto a medio termine di Capitalia che Alessandro Profumo cederà volentieri a Giulio Tremonti.



2) Intanto, negli Stati Uniti avanza, con non minor fatica, il progetto di legge a favore delle piccole e medie imprese caro al presidente Obama: il “pacchetto”, che prevede sgravi fiscali e agevolazioni creditizie, ha ottenuto l’appoggio di alcuni esponenti repubblicani, necessario per raggiungere la maggioranza qualificata. Ma la partita resta assai complicata perché, per il gioco dei veti contrapposti, frazioni della minoranza repubblicana hanno collegato l’approvazione del testo a una revisione del “Dream bill”, ovvero il testo che agevolerà l’ottenimento della cittadinanza a una fetta di ispano-americani in Usa da lunga data (e con permesso di lavoro).



E, più ancora, riaffiora il disegno di render permanenti gli sgravi fiscali per i super-ricchi dell’era Bush, che dovrebbero decadere nei prossimi mesi: una spada di Damocle sulla testa dei moderati repubblicani, invariabilmente battuti alle primarie del partito dai candidati dei Tea Party, la valanga dei “no tax”, antipartito che sta travolgendo la geografia tradizionale Usa.

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3) Anche in Giappone, infine, il pacchetto dei finanziamento alle piccole e medie imprese è al centro dell’ultimo, gigantesco, pacchetto di stimoli all’economia varato dal premier Naoto Kan. E, probabilmente, queste misure hanno avuto il loro peso per garantire a Kan la vittoria sullo sfidante Ozaw, espressione delle vecchie lobbies del partito al governo.

 

4) Insomma, a tutte le latitudini vale una regola: per vincere le elezioni conta il sostegno delle piccole e medie imprese, ossatura dell’economia moderna a Tokyo, Chicago o Berlino come in val Padana. Ma, ovunque, al momento di dettare le regole per la finanza, prevalgono le preoccupazioni delle lobbies degli gnomi, impegnate stavolta a spiegare che i maggiori importi di capitale richiesti per ridurre il rischio legato all’attività bancaria andranno a ricadere sulle imprese e, di riflesso, sulla società.

 

5) Ma le cose stanno così? Oppure, come sostiene Martin Wolf, chief economist del Financial Times, prima di valutare i costi delle regole andrebbero riviste le premesse, Perché: a) sia l’economia che la finanza sono appena scampate da morte certa; b) i costi della crisi comprendono, accanto al valore bruciato sui mercati azionari, anche i milioni di disoccupati e la produzione perduta; c) il sistema finanziario è stato salvato, a caro prezzo, dalla società.

 

6) È falso, perciò, dire che il capitale “costi”. Semmai più capitale vuol dire meno rischi per i contribuenti, che hanno pagato il costo della crisi. L’opinione pubblica, perciò ha interesse a sostenere un capitale più alto.

 

7) Nel caso che, come capita per le piccole e medie imprese, esiste una volontà politica di agevolare il finanziamento di un settore, lo Stato (o meglio la società, con formule cooperative) potrebbe farlo in prima persona, senza per questo offrire ai Big del credito, impegnati a far profitti in ben altro modo, una sorta di facile alibi.

 

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Dietro la partita di Basilea 3, in sintesi, non è in gioco la ripartizione di una risorsa scarsa, il denaro, tra vari competitors. Bensì la creazione di nuovi equilibri su cui ricostruire un mondo reduce da un terremoto che ha lasciato profonde lesioni ancora da risanare.

 

Un mondo che, per necessità, deve essere meno votato al rischio e, di riflesso, alla moltiplicazione della leva finanziaria, per una ragione sola: la comunità internazionale non può concedersi il lusso di un’altra crisi sistemica quale quella passata in questi anni per almeno una generazione. Altrimenti, le conseguenze sarebbero ingovernabili.