Ci voleva David Cameron con la sua “Big Society” per riaprire un dibattito sulla riforma del nostro welfare e sulle possibilità di realizzare l’obbiettivo coinvolgendo le diverse espressioni della società.
Può essere che la nostra cultura, così spesso ammalata di esterofilia, trovi moderno parlare di Big Society, tuttavia sarebbe miope dimenticare che questo tipo di politica si rifà al metodo della sussidiarietà già da tempo presente nel dibattito politico e a cui si ispirano da oltre tre lustri le politiche di Regione Lombardia.
Politiche che non vogliono sostituirsi alla libertà e responsabilità dei cittadini, ma riconoscere e valorizzare quello che nella società esiste e funziona fungendo da moltiplicatore delle esperienze positive in atto. È da qui che prende le mosse la grande riforma della sanità lombarda, ma vanno in questa direzione le esperienze della dote scuola, dei voucher e, più recentemente, la riforma dei servizi alla persona.
Le famiglie e le loro associazioni, i gruppi informali e le organizzazioni del terzo settore sono identificate come potenziali “unità di offerta” e vengono di conseguenza coinvolte nella programmazione, progettazione e realizzazione delle attività sociali e socio-assistenziali. Non viene loro riservato un coinvolgimento residuale, a posteriori, ma è pienamente riconosciuta e valorizzata la funzione sociale che di fatto svolgono.
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La difficoltà di introdurre in Italia il concetto di “big society” non sta quindi nell’assenza di soggetti della “società civile” ma nel permanere di una cultura statalista incapace di riconoscerli e valorizzarli. In Lombardia, in particolare, c’è una storia secolare che documenta la capacità di “prendersi cura” dell’altro, soprattutto nei momenti della sua maggiore fragilità. A partire dalla “Ca’ Granda” e dalle grandi opere caritative ed educative fino alle associazioni, cooperative e fondazioni contemporanee si è costruito nel tempo un tessuto di opere e relazioni che la politica e le istituzioni devono saper valorizzare.
L’erompere della crisi economica internazionale ha messo in questione radicate certezze sulla politica del welfare che non può più essere delegata solo alle istituzioni dello Stato ma deve garantire il coinvolgimento di tutti i soggetti, pubblici e privati, profit e non profit secondo competenze e capacità.
All’Amministrazione non deve più essere chiesta la gestione diretta dei servizi, ma la regolazione, vale a dire la programmazione, la diffusione delle informazioni, il controllo degli standard, la valutazione dei risultati. Maggior coinvolgimento della società non significa arretramento dello Stato, ma miglior definizione di limiti e ruoli: oggi non si può più avere la pretesa assolutista di costruire dall’alto il presunto benessere generale, ma si può e si deve favorire la nascita dal basso di un welfare plurale fondato sulla corresponsabilità di tutti.
(Giulio Boscagli – Assessore regionale alla Famiglia, Conciliazione, Integrazione, Solidarietà Sociale)