Prepariamoci, perché «settembre e ottobre porteranno con sé cattive notizie per il mercato azionario e le banche rimangono pesantemente esposte alla leva, dato ancor più allarmante visto che stiamo entrando nella seconda “gamba” della crisi finanziaria». Parole di Pedro De Noronha, managing partner della Noster Capital di Londra, secondo cui
stiamo assistendo ad anni che rappresentano una sfida senza precedenti per gli investitori. I grandi player, semplicemente, stanno fuggendo dal mercato. Ci sono seri problemi che arrivano dal settore della rinegoziazione dei mutui Usa e l’area euro resta una seria e costante preoccupazione. La Germania non ha la minima intenzione di salvare un’altra nazione europea, la Merkel ha già usato una larga parte di capitale politico per salvare la Grecia e il mercato ellenico dei bonds e questo semplicemente per tutelare il sistema bancario francese e tedesco da ulteriori, gravi perdite.
Ci sono quattro o cinque nazioni con grossi problemi strutturali che non dovrebbero nemmeno essere nell’euro. D’altronde, devo ancora vederlo un politico che si spara alla tempia in ossequio dell’austerity. I greci non hanno alternativa se non quella di tagliare, gli altri come la Spagna non stanno affatto facendo a sufficienza: io sono per la scuola austriaca, non accetto alternative keynesiane.
Dovrebbe dirlo alla Fed e al premio Nobel, Paul Krugman, che lunedì scorso ha chiesto a chiare lettere una nuova politica di stimolo fiscale. Per De Noronha la vera preoccupazione a breve sta nel settore bancario, tanto che sta shortando i titoli di cinque grandi istituti: Ubs, Barclays, Unione de banche, Bbva e – udite udite – Intesa Sanpaolo. Il perché è presto detto:
I recenti stress tests mi hanno fatto sbellicare dal ridere. Sotto stress, infatti, i regolatori hanno messo soltanto ciò che le banche ci hanno detto, non ho visto nessuno testare qualcun’altro finché non si è arrivati al punto di non ritorno. Quando guardo alle ratio del Capital Tier 1, vedo cose poste a loro sostegno che non possono essere utilizzate nel corso di una crisi. Il vero Capital 1 ratio di alcune delle maggiori banche è soltanto l’1,7 per cento e per questo motivo sto shortando cinque grandi banche europee. Ho la certezza che la maggioranza degli istituti restino eccessivamente esposti alla leva.
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Quindi, avevamo ragione quando definivamo "ridicoli" gli stress test Ue?
I regolatori hanno utilizzato il 6 per cento come soglia per definire il minimo di capital ratio ma quel 6 per cento include assets non cash come tax assets differenziati. Se invece utilizzo solo book equity tangibili quel 6 per cento diventa molto vicino al 2 per cento, un qualcosa che impone una leverage ratio di cinquanta volte. Una situazione poco gestibile nell’attuale situazione economica.
E in tal senso un grosso test per la tenuta dell’eurozona e il suo settore bancario, arriva proprio questo mese di settembre, durante il quale le principali banche irlandesi dovranno ripagare oltre 25 miliardi di debito: i volumi molto bassi delle contrattazioni parlano la lingua di un’attesa carica tanto di speranza quanto di preoccupazione. Insomma, basterà il mercato dei bonds per finanziarsi o sarà necessario ritentare la strada del mercato, fino ad oggi prosciugata da volatilità e mancanza di fiducia?
La crisi del debito di maggio e giugno, d’altronde, ha portato con sé un aumento dei costi per i paesi che vogliono ottenere denaro e anche di quelli del prestito bancario. Il problema è che le preoccupazioni crescenti sulla stato di salute dell’economia irlandese (36 aziende su 100 sono sull’orlo del fallimento, dati riportati dall’Irish Examiner), con tanto di downgrade da parte di Standard&Poor’s, hanno fatto schizzare lo spread dei rendimenti tra bond irlandesi e bund tedeschi, situazione che vede quindi le banche costrette a pagare un prezzo maggiore per rifinanziare il loro debito.
«Ora che il mercato obbligazionario sta ripartendo dopo la pausa estiva, c’è grande preoccupazione riguardo la necessità reale per le banche irlandesi e spagnole di emettere durante il mese di settembre e soprattutto riguardo al fatto che quando questo soggetti si presenteranno sul mercato, non è chiaro quale prezzo dovranno pagare», ha dichiarato al Financial Times, Chandra Rajan di Barclays Capital, secondo cui «come tutte le altre banche, anche questi istituti saranno costrette a estendere le scadenze del loro debito ma non si sa quanta estensione sono in grado di gestire».
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Per Robert Crossley, analista sui tassi a Citigroup, lo spread che l’Irlanda si trova a pagare potrebbe ulteriormente allargarsi e potrebbe innescare un effetto domino su altri soggetti:
Il potenziale e immediato pericolo è rappresentato dal fatto che le notizie si autoalimentano e noi già intravediamo una nuova spirale sull’Europa periferica. E un ampliamento dello spread, nelle condizioni attuali, potrebbe distribuirsi nei paesi a rischio molto facilmente. Molte banche hanno tratto vantaggio dalla forte domanda e dai bassi costi dei prestiti per vendere bonds negli Stati Uniti ma i banchieri stessi dicono che questa opzione era praticabile solo per le istituzioni più grandi.
Insomma, i giorni che ci dividono dal secondo anniversario del crollo di Lehman Brothers si prospettano tesi. E pericolosamente decisivi. Anche perché, da Oltreoceano, arrivano segnali ulteriormente preoccupanti per la ripresa globale. Come anticipato martedì, il pieno recovery dell’economia americano potrebbe richiedere una decina di anni, stando all’analisi di Carmen M. Reinhart, economista alla Maryland University e storica delle crisi economiche, che ha reso nota la sua tesi nel corso dell’annuale simposio di economia di Jackson Hole, organizzato dalla Fed di Kansas City e che ha visto riuniti 110 tra banchieri centrali e studiosi.
Allen Sinai, co-fondatore dell’azienda di consulenza Decision Economics e decano dell’incontro nel Wyoming, si è definito
preoccupato oggi come non mai per il futuro dell’economia americana. La sfida infatti è unica nel suo genere: bassa crescita in ulteriore diminuzione, tasso di disoccupazione allarmante, un deficit iperbolico e un debito sovrano che ci rende una delle nazioni più fiscalmente irresponsabili del mondo.
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In occasione del simposio, Carmen M. Reinhart ha preparato uno studio dal titolo "This time is different: otto secoli di follia finanziaria" nel quale ha esaminato quindici severe crisi finanziarie dalla Seconda Guerra mondiale in poi, oltre alle contrazioni economiche che hanno seguito il crash del 1929, lo shock petrolifero del 1973 e l’esplosione della bolla subprime del 2007. Da questo studio si evince che la decade successiva ad ogni singola crisi ha visto tassi di crescita significativamente bassi e livelli di disoccupazione molto alti.
I prezzi degli immobili hanno avuto bisogno di anno per tornare a livelli di normalità e mediamente ci sono voluti sette anni per cittadini e aziende per ridurre il loro debito e recuperare nei bilanci. Quasi scientificamente, le crisi sono anticipate da un decennio di espansione del credito e del prestito e seguite da periodi di rintracciamento più o meno della stessa durata.
Eventi largamente destabilizzanti come quelli analizzati nel mio studio, producono evidentemente cambiamenti nelle prestazioni degli indicatori macroeconomici chiave sul lungo termine, un periodo che si prolungo molto dalla fine del picco della crisi stessa». Per la Reinhart «il rischio maggiore che stiamo correndo è quello di un’errata percezione che potrebbe essere molto costoso se compiuta dalle autorità fiscale che sovrastimano le prospettive di entrata e dai banchieri centrali che tentano di riportare l’occupazione a un livello irrealisticamente alto».
Le sfide davanti a noi, quindi, sono decisamente epocali. E il margine di errore, questa volta, è davvero ristretto.
P.S. Ieri le Borse hanno festeggiato con rialzi euforici l’inaspettato aumento dell’indice ISM dell’attività manifatturiera Usa,salito al 56,3 punti in agosto dopo il calo nel mese di luglio che aveva fatto parlare di crescita rallentata e rischio di "double-dip". Il livello che potrebbe far scattare i crolli borsistici è a 50 punti, livello che molti analisti e gestori di fondi vedono probabile per ottobre, massimo novembre. In compenso, mentre i trader brindavano, gli insiders – ovvero i grandi investitori – confermavano i timori per crollo a breve: è di oltre 100 milioni di dollari di controvalore, infatti, il numero di azioni vendute dai manager di grandi aziende di Wall Street, 64 dei quali solo dei tre dirigenti principali di Goldman Sachs. Investimenti personali, non per clienti: quelli possono anche andare a schiantarsi contro il muro dei mercati. Chi vede le cose dall’interno, vende e scappa.