In teoria Alessandro Profumo avrebbe deciso di dimettersi dalla carica di amministratore delegato di Unicredit in quest’ultimo week-end, quando, per “l’affare libico”, si è cominciato a parlare apertamente di “resa dei conti” da parte dei grandi soci. E dopo aver avuto un “faccia a faccia” non proprio cordiale con il presidente Dieter Rampl.



In realtà, questa cosiddetta “resa dei conti”, dura da due anni, dall’autunno del 2008, da quando la grande crisi finanziaria è esplosa e dalla costa americana dell’Atlantico si è trasferita sulla costa europea. Intendiamoci, Unicredit è una grande banca italiana, la più grande. Ed è anche una grande realtà europea. E tale resta. Tuttavia la filosofia di banca di Alessandro Profumo è apparsa subito inadeguata, dopo lo scoppio della grande crisi, per gestire la nuova fase che si deve affrontare.



L’assetto dei grandi soci era in turbolenza da molti mesi e, nel momento in cui il “colosso di Voghera”, il vicepresidente Fabrizio Palenzona, ha cominciato a chiudersi nel suo silenzio, per romperlo solo con una frase impietosa “Non è più possibile difendere Profumo”, si è capito che la corsa in piazza Cordusio del banchiere italiano più ammirato di questo inizio secolo era al capolinea.

Il blocco delle Fondazioni, da Cariverona a Carimarca fino a Torino e a Bologna, si è compattato. Il presidente di Unicredit, Dieter Rampl, il rappresentante del socio industriale della tedesca Hvb, si è irritato per la cosiddetta “scalata libica”, ormai arrivata al 7,5%, con una manovra a tenaglia portata dalla Banca centrale di Tripoli e il fondo sovrano Lia, contrabbandate come due realtà distinte.



Di fronte alle contestazioni dei soci, Profumo ha replicato di non sapere delle intenzioni dei libici. È scattato così il pretesto per costringere alle dimissioni l’amministratore delegato. Non è escluso, come si dice in alcuni ambienti politico-finanziari, che Rampl abbia addirittura interessato lo stesso Cancelliere tedesco, Angela Merkel, per “sbarazzare il campo da alcuni equivoci”. Sembrava che i grandi soci e il partner tedesco aspettassero Profumo al varco nella giornata di giovedì, in sede di Comitato strategico della banca.

Invece lo stesso Rampl ha anticipato i tempi convocando un Consiglio di amministrazione straordinario e il Comitato strategico in seduta congiunta per riservare l’ultima parola ad Alessandro Profumo, evitandogli l’umiliazione di essere sfiduciato.

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Tutto questo può sembrare una grande sceneggiata. Ma non è neppure semplice liquidare un quindicennio di storia della banca di piazza Cordusio che, da quando ancora si chiamava Credito Italiano, è salita di dimensioni in modo impressionante, imponendo quello che viene chiamato schematicamente il modello anglosassone di banca.

 

Se le dimensioni di Unicredit si allargavano con l’inglobamento delle fondazioni, le fusioni in Europa e le aperture ai mercati dell’Est, fino alla grande fusione con Capitalia, le basi dell’operatività bancaria si basavano sul metodo McKinsay, dove efficientismo, ricerca del valore, dividendi alti per la “felicità degli azionisti”, cura del “roe” e una buona dose di “ingegneria finanziaria” erano una priorità per dare spinta a un sistema che pareva superato.

 

Niente programmi a lungo termine, ma interventi e politiche a breve, con una dose di ossessione per la “trimestrale di cassa”. La divisione UBM di Unicredit, poi sparita, era affollata più da matematici e fisici che da bancari e i diagrammi si sfornavano con una facilità impressionante. Peccato che qualcuno vedesse, e non a torto, in quella divisione una “fabbrica di derivati”. Ma sarebbe anche troppo facile oggi, fare di Profumo una sorta di “capro espiatorio” di una lunga stagione di architettura finanziaria che ha portato alla grande crisi e che ha interessato e coinvolto un po’ tutti: banche, finanzieri, economisti liberisti.

 

Negli anni del denaro facile, dell’uso spregiudicato della leva, del trading e del guadagno “mordi e fuggi”, tutti sembravano contenti. Le stesse Fondazioni, che oggi si lamentano per i magri dividendi, non si lagnavano affatto quando ingrossavano i loro investimenti. Anche i tedeschi di Hvb (che non era poi una banca-esemplare) non avevano nulla da dire sulla conduzione di Profumo. E infine, la fusione con Capitalia sembrava smentire una previsione del compianto Presidente Emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, che aveva detto nel lontano 2003: “Non so quando

E non so il come e il perché, ma sono sicuro che alla fine Geronzi e Profumo litigheranno”.

 

Il fatto comunque certo è che, dopo il crack di Lehman Brothers, Profumo ha lentamente perduto la bussola. Si è sempre detto che l’amministratore delegato della banca di piazza Cordusio, pur avendo dichiarate simpatie di sinistra, non avesse grande dimestichezza nelle cose politiche. Probabilmente, dopo lo scoppio della “grande crisi”, Profumo non ha capito che la finanza doveva rifare i conti con la politica.

 

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Coerente con la sua visione di tenere distante la banca dalla politica, Profumo ha rifiutato fieramente i “Tremonti bond” per ricapitalizzare la banca. Ma mentre chiedeva uno sforzo ai grandi soci per difendersi da una nuova “invasione statalista”, domandava per lo scandalo di Banca Medici (affare Madoff) un intervento del governo austriaco.

 

La sostanza è che l’amministratore delegato di una banca che, dopo la fusione con Capitalia, capitalizzava 80 miliardi di euro, viveva di grande espansione di modelli anglosassoni applicati, non ha compreso che una stagione è cambiata, che proprio quel metodo di cui lui era un alfiere è sotto accusa e che l’efficientismo e il luccichio dei bilanci va bene in periodi di “vacche grasse”. Poi, quando le cose vanno male, anche gli estimatori di un tempo ti rinfacciano tutto.