La defenestrazione di Alessandro Profumo è solo una battaglia, anche se la più eclatante finora, di una lunga guerra per il controllo di Unicredit. Il suo esito è quanto mai incerto, perché le truppe in campo sono tutte troppo deboli per prevalere. Lo sono le fondazioni bancarie, sulle quali soffia il vento leghista, lo sono i soci tedeschi anche se marciano in cordata, lo è Dieter Rampl, lo sono i libici che hanno sempre bisogno del visto di Roma. Soprattutto lo è la più grande banca italiana, la più internazionale, un tempo anche la più efficiente, cresciuta in modo impressionante nei quindici anni della gestione Profumo, e tuttavia colosso dai piedi d’argilla.



Per capire quel che sta succedendo oggi, bisogna cominciare da quel terribile settembre 2008, subito dopo il fallimento di Lehman brothers e il crollo dell’intero sistema finanziario mondiale. Unicredit cade come le altre, ma più delle concorrenti italiane, colpa della speculazione si dice, tuttavia gli speculatori si accaniscono sugli organismi fiacchi, sugli animali feriti, non su quelli sani e robusti. Sono iene, non lupi.



Profumo va in televisione per dire che va tutto bene, e produce l’effetto contrario. Capisce che deve correre ai ripari aumentando il capitale. Rifiuta salvataggi pubblici (e questo resta a suo merito) anche nella forma di Tremonti bonds (irritando il ministro dell’Economia), e chiede aiuto ai soci. Cariverona, azionista rilevante attraverso la fondazione, rifiuta, Mediobanca presieduta da Cesare Geronzi si fa garante e i libici, presenti in piccola quota come eredità di Capitalia, salgono al 5%, come tappa (lo dicono esplicitamente) di una strategia politica che li porta a riciclare i loro petrodollari nell’economia italiana.



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Come mai la Lega non alzò allora alti lai? Come mai i veronesi non misero mano, allora, al portafogli? Come mai si vuole, oggi, maggior potere con meno azioni? Altro che pesarle anziché contarle. Forse la Lega intende rivedere la legge Amato-Ciampi. Ma finché ciò non avverrà, non potranno sperare di fare gli azionisti di riferimento di nessuna banca, ammesso che ne abbiano la forza finanziaria.

 

Le fondazioni sono già troppo esposte nei confronti del sistema bancario. Caritorino impiega un terzo delle proprie risorse in Unicredit e il 16% in Atlantia (autostrade) quando la legge dice esplicitamente che questi ircocervi (come sono stati chiamati) debbono avere un portafogli diversificato e redditizio. Né né l’una né l’altra condizione viene oggi rispettata.

 

Se l’incertezza delle fondazioni è evidente, anche i tedeschi che in questa fase appaiono vincitori, mascherano da forza la loro debolezza intrinseca. Intanto è da vedere se hanno gli stessi interessi strategici (cosa vuole Allianz, ad esempio, socio di lunga data?). Eppoi la fragilità intrinseca risiede in Hypovereinsbank. Quella che è stata celebrata come la grande vittoria della strategia Profumo, si è rivelata il suo errore maggiore, sostiene la rubrica Lex sul Financial Times. Ha portato in dote gli sportelli in Baviera, ma anche debiti e mutui immobiliari ad alto rischio.

 

Crudelmente, il quotidiano della City che pure ha sempre apprezzato la vocazione mercatista di Profumo, scrive che era una banca alla quale nessuno aveva osato avvicinarsi. E’ stata risanata anche grazie ai sacrifici dei clienti e degli azionisti italiani. La Lega non protesta perché le fondazioni hanno sborsato quattrini per aiutare i tedeschi, ma se la prende con i libici che portano quattrini. Certo, il colonnello Gheddafi, ricevuto in pompa magna a Roma, è impresentabile a Verona. Ma siamo sicuri che il sindaco Tosi troverà una tavola imbandita a Monaco di Baviera?

 

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Profumo ha usato i libici per salvare la propria poltrona. A parte che anche Rampl risulta informato degli acquisti realizzati anche attraverso i broker di Unicredit, a parte che per la banca di Tripoli ha continuato a garantire Geronzi (“i migliori soci che abbia avuto”, ha detto non più tardi del 25 agosto al Meeting di Rimini), l’amministratore delegato ha provato il vecchio gioco del divide et impera.

 

Risultato che lui è uscito, i libici restano contenti più che mai del loro investimento e ben coperti dalla politica italiana che non vuole (forse non può) rinunciare a loro. Adesso tocca a Rampl fare da arbitro e ago nel bilancino del potere. Fino a quando? Lui non ha soldi, le fondazioni neppure e ne riceveranno sempre meno sottoforma di dividendi. Le banche italiane hanno bisogno di rafforzarsi e dovranno aprire il capitale a nuovi soci. E, per quanto sistemica, per quanto troppo grande per fallire, oltre un certo limite anche l’azienda bancaria non sfugge alla legge bronzea del capitale: comanda chi paga.

 

Tra i pochi che hanno i quattrini ci sono le Assicurazioni Generali e adesso torna in ballo l’ipotesi di una loro fusione con Mediobanca per creare una potente concentrazione finanziaria e mediatica (controllerebbe il Corriere della Sera). Prospettiva alla quale era contrario Profumo. Di qui la sua defenestrazione. Se ne parla da tempo, troppo tempo.

 

Con Geronzi a Mediobanca e prima di Geronzi. Ci ha provato Cuccia in più occasioni. E’ un vecchio sogno. Ma con un’economia integrata e internazionale come quella odierna, trasformare Generali in una cassaforte del potere politico italiano, significa renderla irrilevante sulla scena mondiale. Anche questo, in fondo, è un segno di debolezza.