«Profumo? La sua uscita non è estranea al lungo processo di disgregazione politica della sinistra. Le fondazioni? Hanno peccato di miopia. Il loro vero interesse non è la non internazionalizzazione della banca, ma che questa sia più redditizia. Tremonti? Mi sembra dispiaciuto, ma non del tutto». Francesco Forte, economista, parla con il sussidiario dell’uscita di Alessandro Profumo dal gruppo UniCredit e degli scenari che ora si aprono.
Professore, come vede l’uscita dell’Ad di UniCredit, avvenuta in modo così repentino e convulso?
Quello dei libici è stato solo un pretesto, lo scoppio di una tensione crescente tra il gruppo delle fondazioni bancarie e il manager. Non dimentichiamo che Profumo era in UniCredit come uomo delle fondazioni bancarie. Nell’ultimo periodo ha cercato di esserne autonomo, ampliando la banca attraverso una rete di azionisti internazionali, ma il meccanismo si è rotto. In più, Profumo era politicamente debole.
Cosa intende dire?
La sua uscita non è estranea al lungo processo di disgregazione politica della sinistra. Perché se Profumo ha scalato il potere bancario, la sua fortuna iniziale è di natura politica: senza Romano Prodi non sarebbe arrivato dove lo abbiamo visto e senza le fondazioni bancarie non sarebbe rimasto dov’è stato fino all’altro ieri. Lo scenario è cambiato. Le fondazioni non hanno più un riferimento politico unitario e a Profumo è venuta meno la vecchia copertura politica che in questo frangente lo avrebbe aiutato non poco.
Perché le fondazioni sono arrivate alle resa dei conti con Profumo?
Coi soldi delle fondazioni Profumo ha ricapitalizzato UniCredit senza però dare grandi dividendi e facendo loro perdere, in prospettiva, il controllo di una banca in cui esse avevano messo non solo molto denaro ma anche un po’ della loro politica. Quando ha dato alle fondazioni il segnale che mano a mano che lui andava avanti avrebbe gestito da manager autonomo la banca, queste hanno deciso che poteva bastare. Ma anche le fondazioni hanno sbagliato.
In che cosa?
Hanno peccato di miopia. Il loro vero interesse non era la non internazionalizzazione della banca, ma che questa fosse più redditizia.
Questo discorso vale anche per la Lega?
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La posizione della Lega mi lascia perplesso, checché ne dica Giorgetti (nella sua intervista a Il Sole 24 Ore, ndr). Sembra esserci una contraddizione all’interno della Lega tra il punto di vista locale e un punto di vista più ampio. Una banca come UniCredit – che tutto sommato, essendo per la Lega «neutrale», non era nemica – le avrebbe consentito di avere una politica globale alla quale oggi non si può rinunciare. E poi Tremonti stava «recuperando» Profumo e avere un banchiere indipendente, nello scenario italiano attuale e visto il nostro debito pubblico, era importante.
Ma fino all’altro giorno il sindaco di Verona rimproverava Profumo di non aver messo al corrente gli azionisti dell’ingresso dei libici. E di non tutelare gli interessi del territorio.
Appunto. Questa è l’espressione di un’ottusa politica di interessi locali che non sa vedere il senso di un’operazione come quella dell’ingresso del capitale libico, che dal punto di vista di Profumo, e degli interessi della banca, era più che sensata. Ma la sua «colpa» è stata quella di fare investimenti dalla Polonia alla Libia e di sottrarsi al controllo degli azionisti di casa nostra.
Alcuni rimproverano invece al governo di non avere mosso un dito. Che ne pensa?
Tremonti ha cercato ufficialmente, e credo realmente, di esercitare una moral suasion in modo da indurre chi voleva sfiduciare Profumo a recedere, ma evidentemente si è limitato ad un’azione che non è stata poi così incisiva ed efficace. Non dimentichiamo che un ministro dell’Economia ha sempre molti strumenti a disposizione. Diciamo che Tremonti mi sembra dispiaciuto, ma non del tutto.
«Il caso di Alessandro Profumo – ha detto Giancarlo Giorgetti, discolpando la Lega – nasce e finisce dentro al Cda di UniCredit». Insomma, è l’esito di una lite interna al mondo bancario, la politica non c’entra.
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Ma proprio per questo non è da sottovalutare, perché vuol dire che le fondazioni bancarie hanno interferito nel modo sbagliato. Perché queste avrebbero ragione di aver sfiduciato Profumo se la motivazione fosse di natura strategica: un dividendo scarso o una non politica di sviluppo delle imprese per esempio. Ma non una motivazione attinente al potere di controllo, «non ci ha informato dei libici». Perché questo tradisce che il loro scopo è comandare, non quello di avere risultati. E così facendo non si sono nemmeno dimostrate interessate al territorio, se è vero che questo vive di capitali.
Un’operazione come quella dell’ingresso del capitale libico non avviene senza un consenso politico. Dunque è esistito un ruolo del governo.
Il tacito consenso politico mi pare ovvio, perché i libici hanno fatto un accordo globale con l’Italia, positivo anche per UniCredit come banca internazionale. Poter aprire sportelli in Libia, ma forse questo il sindaco di Verona o la Lega non lo sanno, non è come aprirli a Catanzaro. La Libia è un paese arabo pieno di soldi e una banca importante con sedi libiche può attrarre capitali da tutto il mondo arabo. Se la Banca d’Italia, che non è il governo italiano, aveva autorizzato l’operazione vuol dire che nel quadro della vigilanza che è suo compito era un’operazione pulita, corretta.
A chi giova adesso la potenziale instabilità di un gruppo come UniCredit?
Bisogna innanzitutto vedere come Profumo sarà rimpiazzato. Occorre registrare il fatto che ora il socio tedesco è diventato l’arbitro della situazione. Le fondazioni bancarie, pur di impedire che ci sia un manager che controlla la banca, sarebbero liete di controllarla insieme a un tedesco. Hanno maramaldeggiato. Sotto questo profilo è un’operazione che si può definire maldestra, perché nessuno, in casa nostra, ne è avvantaggiato.
Il timore delle fondazioni non era che per come si stava evolvendo UniCredit, il suo modello di sviluppo andasse a discapito del tessuto produttivo italiano, del celebrato «territorio»?
Non so se avessero ragione perché non ho gli indicatori economici che possano dimostrare questa tendenza. Forse avevano ragione di temere che UniCredit non fosse abbastanza in grado di espandere la sua attività di credito. Ipotizziamo che il timore delle fondazioni sia giustificato: ma allora il vero problema sarebbe un altro, legato al fatto che le fondazioni non possono esse stesse farsi dare soldi da qualcuno e investirli, perché non società.
Sta dicendo, professore?
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Che il meccanismo delle fondazioni bancarie non è adatto allo sviluppo del territorio. Che può competere solamente o alle banche popolari o a quelle di credito cooperativo, e bisogna farsene una ragione.
Secondo Giavazzi ha vinto la logica dei «piccoli feudi» e delle ingerenze territoriali su quella dello sviluppo di una grande multinazionale italiana del credito, basata sul progetto di una grande struttura bancaria unificata.
Profumo era solo agli inizi del suo progetto e il suo risultato non va sopravvalutato. Poi, pur avendo il disegno generale, ha avuto il difetto di vedere più la finanza che l’economia reale. Diciamo che ha lanciato un messaggio che bisognerebbe saper cogliere: che tipo di banca multinazionale vogliamo? Il modello inglese, che ha portato al disastro la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, o un modello di banca che si occupa di produzione?
Non potrebbe essere questo il vero motivo per cui la posizione delle fondazioni azioniste ha incontrato quella dei soci tedeschi?
Il socio tedesco era probabilmente preoccupato che Profumo non fosse l’uomo giusto per dare vita a una banca che si occupi di produzione e non di derivati e di alta finanza. Non dimentichiamo quello che le banche hanno combinato in Germania. In questo ragionamento di alto profilo non poteva mancare un motivatore contingente: intanto comincio a contare di più nel mio gruppo.