Il fenomeno, ahimè, non fa nemmeno più notizia. Mese dopo mese, in Italia ma non solo, sale la disoccupazione. Non stupisce nemmeno che il fenomeno si aggravi, come è accaduto nel trimestre tra aprile e giugno, nonostante il lieve miglioramento della congiuntura, legato per lo più alla crescita dell’export.
Proprio in corrispondenza con la ripresina, infatti, i disoccupati hanno raggiunto il livello massimo degli ultimi dieci anni: 2,136 milioni di persone in cerca di lavoro, con un aumento dell’1,1% rispetto al primo trimestre e addirittura del 13,8% rispetto a dodici mesi prima. Una caduta che riguarda un po’ tutti seppur con diversa intensità: sia gli uomini (-2%) che le donne (-1,3%), sia il Nord (114 mila posti in meno) che il Sud (-88 mila), cui va aggiunta la legione di chi da tempo ha rinunciato a iscriversi tra chi un lavoro lo cerca ancora. E non suscita scalpore nemmeno il fatto che l’esercito dei senza lavoro sotto i cieli del Bel Paese riguardi ormai un giovane sotto i 24 anni su quattro. Anzi, qualcosa in più, visto che il dato rilevato dall’Istat è ormai salito a quota 27,9%, il dato più alto dal ’99.
Insomma, brutto stabile su tutta la linea. In Italia, ma non solo. L’emergenza lavoro è la mina più seria sul cammino di Barack Obama in vista delle elezioni di novembre. Come dimostra anche l’uscita di scena di Lawrence Summers, l’ultimo superstite della squadra economica che negli ultimi due anni ha cercato di riavviare, senza successo, la ripresa.
Certo, anche negli States, come nella vecchia Europa, non mancano qua e là segnali di risveglio della congiuntura, anche sul fronte della richiesta delle nuove case. Ma nonostante l’innegabile maggior flessibilità della forza lavoro garantita dalle leggi americane, il risultato è il medesimo: nessun imprenditore, data la precarietà della situazione, se la sente di fare assunzioni. E così, anche a settembre il verdetto è impietoso: 12 mila persone in più alla ricerca della prima occupazione, che vanno ad aggiungersi ai 445 mila già censiti dal Labor Department.
E il malessere non tocca solo i giovani, costretti a imitare i bamboccioni all’italiana: senza uno stipendio, seppur precario, addio alla prospettiva di uscir di casa. E senza una prospettiva qualsiasi, si può aggiungere, addio alla famosa mobilità americana: gli adulti, a 50 anni, disperano di trovare un lavoro purchessia nei 50 Stati dell’Unione, nota la radiografia del New York Times, nel Midwest come nella Florida, già terra del sole, oggi popolata da anziani alle prese con gli sfratti.
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Le terapie? Per prima cosa non toccate le tasse, ammonisce la valanga dei tea party. Non illudiamoci, spiegano gli economisti più vicini al movimento, di poter contrastare il fenomeno con investimenti pubblici. Anzi, l’unica soluzione è di affidarci alla “potenza creativa” del capitalismo: nasceranno nuovi mestieri, destinati ad attrarre nuovi investimenti. La trasformazione, come sempre, farà le sue vittime. Ma qualsiasi intervento peggiorerà le cose.
È un’ideologia suicida, replicano le voci della sinistra, che cominciano a farsi sentire anche tra Chicago e New York: nella vita reale le cose non vanno così. Occorre sostenere la domanda interna, ricreare condizioni di fiducia. Accelerare, soprattutto, la terapia degli stimoli all’economia che hanno evitato, finora, il peggio. E speriamo che l’Europa, finalmente, ci segua su questa via. Altrimenti, peggio per loro.
La scelta giapponese di intervenire contro lo yen forte, per la prima volta dal 2004, è solo il primo segnale in una direzione che sarà seguita da tutti. Anche il dollaro è destinato a svalutare, a fronte delle scelte della Fed per dotare i mercati di nuova liquidità. E non dimenticate l’intervento, di non poco conto, della Banca Centrale Svizzera per frenare la rivalutazione del franco. Insomma, si sta entrando in una fase di svalutazioni competitive che rischia di avere un grosso impatto sull’economia globale. Nell’attesa della risposta più importante: quella del Drago cinese, più che arbitro dell’import/export mondiale.
Che prospettive può avere, in un quadro del genere, la pretesa europea di tornare al più presto al rispetto dei parametri di Maastricht? La navicella di Bruxelles rischia di essere stritolata da due forze contrapposte: da una parte il rischio che la rivalutazione dell’euro soffochi la ripresina, a partire dalla Germania; dall’altra, che le tensioni sul fronte dei bilanci e delle esigenze dei debiti pubblici si rivelino insostenibili per le aree più deboli. Vedi l’Irlanda, dopo la Grecia.
Che c’entra tutto questo con la disoccupazione? C’entra, perché non è possibile far fronte a un fenomeno di quell’entità con politiche locali o con semplici operazioni di lifting. Certo, in parte si possono condividere i sacrifici, come in parte si è fatto. O contenere gli effetti più negativi. Ma è impossibile fronteggiare il fenomeno senza una politica di lungo termine di risparmi privati, investimenti collettivi e forte condivisione degli obiettivi.
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Come ci insegna la Germania, dove è possibile lo scambio tra posto di lavoro con la moderazione salariale, come è avvenuto alla Siemens dove l’azienda si è impegnata, in pratica, a garantire l’impiego a vita per i 128 mila dipendenti. In caso di riduzione di organici in una controllata, come già previsto da un precedente protocollo, la Siemens offrirà un nuovo posto, contrattato con i sindacati.
Perché non imitare la via tedesca? Sarebbe bello. Ma quanti e quali gruppi italiani possono offrire garanzie di questo genere? Quanti, di questo passo, sopravviveranno al 2010 senza cessioni, ristrutturazioni violente o cambi di attività? E, d’altro canto, le tante sigle sindacali italiane possono garantire la necessaria flessibilità senza abusare, magari per via giudiziarie, di una garanzia a vita? La crisi italiana merita terapie globali. Ma anche un esame di coscienza locale.