Tutte le nazioni, Stati Uniti in testa, stanno svalutando le loro monete per favorire le esportazioni, con l’eccezione dell’eurozona. Tale tendenza comporta due rischi: (a) l’economia dell’eurozona, trainata dalla locomotiva tedesca massimamente dipendente dall’export, sarà danneggiata dalla perdita di competitività valutaria; (b) l’America sta attuando una svalutazione competitiva stampando, di fatto, dollari e ciò predispone una futura ondata di inflazione che contagerà il resto del mondo. Va aggiunto che l’economia italiana, seconda in Europa solo alla Germania per volume dell’industria manifatturiera e uguale a questa per dipendenza dall’export, rischia un ritorno in recessione o la continuazione di una crescita troppo bassa per il cambio decompetitivo.
Nei giorni scorsi la stampa, correttamente, si è chiesta come mai il cambio dell’euro risalga nonostante i problemi ancora irrisolti, anzi in peggioramento, di insolvenza del debito di alcune euro nazioni. La risposta è semplice. Il mercato sta alzando l’euro non tanto perché si fida di questa moneta, anzi, ma perché nel breve termine vede che la Bce non vuole partecipare alla gara di chi svaluta di più.
Ne è controprova il fatto che il prezzo dell’oro, bene rifugio quando c’è il timore di inflazione, cioè di perdita di valore delle monete, sta salendo oltre misura: il mercato compra euro a breve, ma oro a lungo e per riserva. Tornando al punto, bisogna chiedersi se sia più vantaggioso, per l’eurozona e per l’Italia, restare con l’euro alto e decompetitivo oppure metterlo in gara con le altre monete per chi svaluta di più.
La risposta a questa domanda è già determinata dallo statuto della Bce che la obbliga alla difesa del valore della moneta a qualsiasi costo, anche quello di indurre recessioni per evitare inflazione. Significa, semplificando, che la Bce, diversamente dall’americana Fed, non stamperà euro. Ma potrà fare altre manovre per attutire la trappola del cambio troppo elevato. E certamente le farà perché ha in memoria che la lentezza della ripresa europea dopo la recessione 2000-02 fu causata dal cambio troppo alto dell’euro sul dollaro che penalizzò l’export europeo: la Germania uscì fuori dalla stagnazione solo nel 2005, l’Italia nel 2006.
Pertanto il dato che ci interessa di più per l’analisi è capire quanto l’America spingerà la svalutazione competitiva, cioè di quanto abbasserà il dollaro, per vedere se i mezzi della Bce potranno attutire la perdita di competitività oppure no. Da un lato, la Fed ha certamente interesse a mantenere il fenomeno entro limiti. Dall’altro, Obama ha un disperato bisogno di accelerare la ripresa troppo stentata in America, in vista delle elezioni presidenziali del 2012, via aumento dell’export.
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Inoltre, la Cina, come il Giappone, non mostra segni di accettare la rivalutazione della sua moneta e così aiutare l’economia americana. Ma, soprattutto, in America circola una teoria, non detta apertamente per pudore, che in caso di bolla di inflazione l’America stessa ne soffrirà di meno delle altre economie colpite dal contagio. Il suo mercato interno più efficiente, infatti, è in grado di far rientrare l’inflazione prima di altri.
In sintesi, c’è il rischio di una caduta eccessiva del dollaro con destabilizzazione finale e globale, attorno al 2013-14, dovuta a inflazione incontenibile, e di una precedente crisi recessiva già nel 2011 nell’eurozona. L’unico modo per ridurre tale rischio è quello di un accordo monetario internazionale che ponga limiti al gioco svalutativo. Germania e Italia hanno il massimo interesse per spingere l’eurozona a ottenerlo.