Sembrerò paranoico, ma non riesco a capacitarmi del fatto che la grande stampa stia snobbando la grave crisi dei rapporti tra Cina e Stati Uniti e le ripercussioni che questa sta riverberando sugli equilibri geo-economici futuri. Certo, l’addio di Alessandro Profumo, la crisi del debito europeo, Basilea 3 sono argomenti assolutamente degni di attenzione, ma se salta il rapporto simbiotico di mutua assistenza tra i due giganti, tutto il resto rischia di trasformarsi in un romanzetto d’appendice. E i segnali che giungono in queste ore, parlano una lingua poco rassicurante.
Per Tom Winnifrith, amministratore delegato di New Rivington Street Holdings, infatti, «la supremazia statunitense garantita dal fatto di essere la prima economia del mondo finirà molto presto e per questo, a livello di grandi investitori globali, l’oro viene visto con un investimento migliore del dollaro. Non stupiamoci, quindi, dei conti record aurei e del fatto che la crescita del metallo prezioso continuerà. Il deficit commerciale e il debito stanno continuando a crescere e le autorità sono riluttanti a cercare soluzioni per il problema che non siano le politiche di quantitative easing, ovvero stampare moneta a più non posso.
Parliamoci chiaro, l’America è praticamente proprietà della Cina. Questa situazione mi ricorda il 1900, quando la sterlina era la valuta riserva mondiale, salvo poi arrivare il 1948 e il collasso dell’Impero britannico. L’America sta facendo ciò che fece la Gran Bretagna: gli Usa spendono molto più di quanto possono permettersi e non sta cercando soluzioni al problema. Nel 1832 Cina e India erano le principali economie mondiali ed entro il 2032 recupereranno questo status: i 200 anni di supremazia britannica e statunitense sono stati un’aberrazione che ora cambierà. Il declino degli imperi è sempre accaduto molto più velocemente di quanto la gente credesse: a mio avviso, l’oro resterà un migliore investimento rispetto al dollaro per almeno venti anni».
Forse un po’ eccessivo ma il quadro, amici miei, è questo. Nel silenzio generale, infatti, la Cina sta continuando a provocare i principali competitor globali. Dopo la disputa diplomatica con il Giappone, risolta mostrando i propri muscoli economici, due giorni fa Pechino ha ulteriormente alzato l’asticella della tensione imponendo tariffe esorbitanti sull’import di pollame statunitense.
Domenica il ministro del Commercio cinese ha annunciato attraverso il proprio sito Internet che sarebbero in un’avanzata fase di studio, l’imposizione di tariffe del 105,4% sul pollame degli Usa, una decisione frutto – dice Pechino – di uno studio antidumping in base al quale gli Stati Uniti starebbero importando in Cina pollame in pezzi a prezzi minori di quanto non gli costi allevarlo e produrlo. Vero? Falso? Difficile dirlo, ciò che giunge dalla Cina va sempre preso con le pinze, ma il fatto che l’indagine sia partita due giorni dopo l’imposizione da parte di Barack Obama di tariffe altissime sull’import di alcune componenti meccaniche cinesi, parla la lingua di una guerra commerciale con tutti i crismi.
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Il fatto, poi, che l’import del pollame sia uno dei pochi settori a garantire agli Usa un surplus commerciale nei confronti della Cina la dice lunga sulle ragioni strategiche che sottendono questa decisione. Inoltre, contemporaneamente, la Cina sta continuando nella sua politica di blocco del trasporto e consegna di rari minerali terrosi verso il Giappone (fondamentali per settori quali l’automotive, l’elettronico e il settore delle energie pulite e di cui la Cina ha pressoché l’oligopolio gestendo il 93% delle tonnellate totali nel mondo), come politica ritorsiva per l’arresto del capitano di una nave cinese da parte della autorità di Tokyo.
«La sempre crescente assertività della Cina sul palcoscenico economico mondiale riflette la sua inarrestabile potenza economica e la fiducia che il governo ha nel suo ruolo di leadership, detto questo il rischio è quello di un prezzo da pagare in termini di sviluppo per combattere queste battaglie», ha dichiarato a Cnbc il professor Eswar Prasad, docente di economia a Cornell. Per Jiang Wenran, docente specializzato in politiche economiche e rapporti Cina-Giappone all’Università di Alberta in Canada, «la Cina si sente ogni giorno di più sotto assedio a causa della sua crescente influenza e della volontà dei partner di contenerla. Il governo non vuole quindi apparire debole, anche perché le pressioni interne stanno crescendo. Hanno scelto l’opzione del nazionalismo aggressivo».
Gli Usa esportano pollame per 4 miliardi di dollari l’anno, 678,2 milioni dei quali in Cina, stando a dati riferiti allo scorso anno del Global Trade Information Service della Columbia. Insomma, un brutto colpo per Obama e soprattutto per gli allevatori visto che a detta di Gary Blumenthal, capo esecutivo della World Perspectives, un’azienda di consulenza agricola con sede a Washington, «la Cina è vista negli Usa come un mercato potenzialmente destinato a una crescita enorme per il mercato del pollame, anche a causa dei cambiamenti di abitudini alimentari. Inoltre, la Cina importa in gran parte le zampe dei polli, una delicatezza per la loro cucina, un materiale di scarto e quasi invendibile altrove».
Il problema, a livello globale, si complica poi ulteriormente poiché Pechino non si limita a politiche ritorsive verso i competitor, ma stringe anche alleanze strategiche che possono ribaltare gli equilibri esistenti nello strategico mercato dell’energia. È di ieri, infatti, la notizia di un accordo tra Cina, il più grande consumatore mondiale di energia, e Russia su petrolio, gas, carbone ed energia nucleare: un accordo che significa anche un profondo passo avanti nella partnership strategica ed economica tra i due paesi. Per il presidente Hu-Jintao, «la cooperazione sino-russa è un nuovo inizio e intendiamo proseguire verso un’ulteriore ottimizzazione».
D’altronde, la delegazione che accompagnava il presidente Medvedev era di prim’ordine: l’amministratore delegato di Gazprom, Alexei Miller e il ministro dell’Energia, Sergei Shmatko in testa. Manca solo l’accordo sul prezzo, che si troverà, ma riguardo alle condizioni principali per i contratti di fornitura di gas naturale è tutto ok. A latere, poi, sono stati siglati accordi bilaterali di collaborazione su settori strategici come quello bancario e quello dell’antiterrorismo: ceceni e separatisti vari sono avvertiti. E anche la Cia, principale finanziatrice di gruppuscoli e false Ong nell’ex Unione Sovietica.
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D’altronde, né a Mosca e né a Pechino era sfuggito il roadshow posto in essere dal primo ministro della Mongolia, Sukhbaatariin Batbold, a New York per cercare partnership nella gestione della nuova Borsa mongola, pronta a dare il via alle operazioni entro fine anno: detta così può quasi far ridere, peccato che la Mongolia, lingua di territorio schiacciata proprio da Cina e Russia, sia uno dei “paradisi” delle commodities mondiali, con un tesoro di miniere di rame, oro, tungesteno e carbone (la sola miniera-deposito di Tavan Tolgoi garantisce 7,5 miliardi di tonnellate di carbone) e una produzione industriale che incide al 21% sul Pil.
Il governo mongolo intende quotare il 50% delle miniere attraverso un’offerta pubblica, mantenendo però il controllo statale sulla proprietà: inutile dire che gli appetiti al riguardo sono famelici. E, a oggi, sembra che sia la Lse di Londra a ricoprire il ruolo di front-runner per la gestione della nuova piazza, buona notizia anche per Milano che vede la propria Borsa di proprietà londinese. Wall Street, però, non intende perdere l’occasione e ha messo in pista tutte le possibili via per scavalcare Londra: i due giganti dell’Est per ora guardano, ma le loro mosse strategiche parlano la lingua di un intervento solo rimandato, essendo la Mongolia – come anticipato – schiacciata territorialmente tra Cina e Russia, quindi facilmente “influenzabile”.
Tornando all’accordo sino-russo, la Russia comincerà a consegnare gas naturale alla Cina dal 2015 se verrà raggiunto l’accordo su tutti gli aspetti della cooperazione, tra cui quello fondamentale delle infrastrutture: per il vice-premier russo, Igor Sechin, «la Russia può fornire alla Cina tutto il gas di cui ha bisogno», siamo quindi allo stadio della “full volume cooperation”, l’Europa è avvertita e anche l’Ucraina, passaggio obbligato del gas verso l’Ue, potrebbe perdere il suo ruolo di guastatore e ricattatore per conto terzi. Anche perché Gazprom ha detto chiaramente che ha intenzione di inviare il primo stock di gas via pipeline già l’anno prossimo: la questione principale, ora, sono i prezzi, visto che i russi vorrebbero legare il loro export di gas e petrolio in Cina alla stregua di come gestiscono il mercato verso l’Ue, visto che la Cina lo scorso anno ha visto l’import di petrolio aumentare del 48% e raddoppiare dal dato del 2005.
Lo scorso anno la Russia ha siglato un contratto di fornitura di petrolio verso la Cina per venti anni al prezzo di 25 miliardi di dollari di credito verso l’azienda petrolifera statale Rosneft e l’oligopolio della pipeline Transneft: la fornitura commerciale di petrolio comincerà il 1° gennaio attraverso la pipeline sino-russa Skovordino-Mohe. In agosto, poi, il premier Vladimir Putin ha aperto la prima sezione della East Siberian Pacific Ocean pipeline, che avrà un braccio di fornitura per la Cina. La Russia, inoltre, intende costruire due reattori nucleari addizionali da 1000 megawatt nel complesso di Taiwan il prossimo anno, stando almeno alle dichiarazioni di Sergei Kiriyenko, capo della Rosatom Corporation, la holding nucleare statale russa che ha parlato anche della possibilità di aiutare la Cina ha costruire reattori nucleari rapidi, quelli di quarta generazione, che garantiscono minimi scarti nucleari e massima efficienza. Insomma, mentre noi parliamo di case a Montecarlo, Cina e Russia stringono accordi per strozzarci e imporre un nuovo oligopolio globale. Tant’è, abbiamo ciò che ci meritiamo.
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P.S. Oggi avrei voluto parlarvi della politica di svalutazione monetaria globale, ma il professor Carlo Pelanda ieri lo ha fatto in maniera egregia, quindi non mi sono sentito in colpa nella mia paranoia sugli equilibri globali. Prometto che giovedì parlerò d’altro, vi darò un po’ di respiro. Da Portogallo, Irlanda e Ungheria, infatti, arrivano notizie interessanti. Anche se non esattamente confortanti.
D’altronde, questa è la situazione. Lo certificava ieri anche il Financial Times che rendeva noto come le banche centrali europee abbiano smesso di vendere l’oro delle loro riserve: eurozona, Svizzera, Svezia, non fa differenza, la chiusura del rubinetto aureo è indiscriminata e generalizzata. Nell’anno di vendita, conclusosi a settembre, il dato parla di 6,2 tonnellate vendute, un dato giù del 96%: il dato più basso dall’accordo aureo del CBGA siglato nel 1999 e un balzo all’indietro non da poco dal picco di 497 tonnellate vendute nel 2004-2005.
La crisi del debito, ben lungi dall’essere terminata, porta anche a questo: si tesaurizzano le aspettative di nuovi slumps. E del sempre maggiore rischio di recessione double-dip in Irlanda, a forte rischio di contagio.