Lo spadone di Alberto di Giussano ha colpito alla cieca nel Consiglio regionale lombardo. Tutta presa nella sua campagna a tutela del “Made in Lombardy”, la Lega ha menato fendenti come Brancaleone. Ci sarebbe un po’ da ridere, se non prevalesse la voglia di piangere… E non sono parole eccessive.
Cos’è successo? È semplice. Il Pdl aveva preso un’iniziativa legislativa discutibile finché si vuole, come peraltro quasi ogni cosa in politica, ma forte di una sua logica interna: per premiare le imprese lombarde in grado di resistere alle lusinghe della delocalizzazione, alla prospettiva di risparmiare drasticamente sui costi del lavoro e sui carichi fiscali trasferendo le proprie produzioni nei Paesi emergenti, il Pdl voleva introdurre a loro favore una forma di incentivazione finanziaria piuttosto consistente. Ma niente da fare: secondo la Lega, che ha votato contro l’emendamento, sarebbe stato un favore eccessivo ai padroni.
Fin qui normale dialettica politica all’interno dello stesso schieramento. Ma il surreale è venuto dopo: la Lega, infatti, prima ha bocciato la proposta degli alleati e subito dopo ha invece proposto e votato un emendamento per punire le imprese che delocalizzano, dimenticando che quasi tutte le imprese lombarde hanno già all’estero una parte della loro produzione.
Ora, è chiaro che soltanto una forte dose di impulsività, o di “vis polemica” scissa da qualunque analisi, può far sembrare “giusto” un provvedimento che penalizza anche quelle imprese che esternalizzano solo una parte della produzione: rischiando, oltretutto, di indurle ad andarsene via completamente! Un aspetto ancora più paradossale è poi che il disegno di legge sulla tutela del made in Italy, proposto alla Camera con la prima firma di Marco Reguzzoni, della Lega (e il sostegno bipartisan di Massimo Calearo e Santo Versace) prevede che venga considerato “prodotto Made in Italy” quello che realizza in Italia almeno due fasi della produzione. Esistono allora due “Leghe”, una nazionale e una regionale? Oppure si voleva davvero introdurre una disparità di trattamento tra imprese lombarde e imprese italiane?
Il caso è stato sollevato dal presidente della IV Commissione attivita` produttive e occupazione del Consiglio Regionale della Lombardia, Mario Sala, del Pdl, con una pepatissima nota in cui ha bastonato la Lega: “In questo modo si rischia di fare di tutta un’erba un fascio, perché si mette sullo stesso piano chi fa il furbo (chiedendo i contributi regionali per l’industrializzazione e poi andandosene via dall’Italia, ndr) e chi, invece, esternalizza solo una parte della produzione, scelta spesso vitale per la sopravvivenza dell’azienda stessa. Infatti, delle 800 mila imprese che operano in Lombardia, molte hanno una porzione di produzione all’estero, ma ciò non è certo paragonabile al caso di chi, dopo aver preso i contributi dalla Regione o dal Ministero, chiude l’azienda in Italia per trasferire la produzione fuori dai confini”.
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Più banalmente, però, è forse corretto inquadrare la sortita della Lega al Pirellone come uno dei tanti episodi di politica puramente mediatica, parole al vento, frasi a effetto confezionate solo per fare titolo sui giornali e stupire la base elettorale. La giornata di ieri, in definitiva, rimarrà più che altro segnata dalla polemica del leader storico della Lega, Umberto Bossi – pur sempre ministro in carica, e per le Riforme istituzionali! – che ha ritenuto sensato dire che l’antica sigla “S.P.Q.R.”, che nei fumetti di Asterix da quarant’anni significa “sono pazzi, questi romani!” starebbe invece per “Sono porci, questi romani!”, facendo comprensibilmente andare su tutte le furie il sindaco di Roma Gianni Alemanno, che si è rivolto a Berlusconi per avere giustizia. Come se non bastassero al Cavaliere le grane provocategli dall’ex alleato Gianfranco Fini.
Questa è la Lega: movimento, movimento, come cinquant’anni fa avrebbe detto l’allenatore Helenio Herrera. Movimento, anche quando sarebbe più sensato stare tranquilli. Ma è anche così che si raccattano voti.