L’auto accelera. Almeno nei Paesi emergenti. In Brasile, dove pure la ripresa perde velocità, in agosto le immatricolazioni sono salite del 3,5 per cento. Poco o nulla rispetto a quel che si verifica nel subcontinente indiano, terra di Tata e di Mahindra. Qui, addirittura, il tasso di crescita è stato tra il 20 ed il 30 per cento secondo i primi conteggi. Roba da ridere, replicano i signori dell’auto cinese. Qui, senza che suoni da monito la paralisi del traffico sulla strada tra Pechino ed il Tibet che si risolverà solo tra diverse settimane, l’aumento è stato davvero epocale: 977.300 vetture vendute in soli trentuno giorni, ovvero il 60 per cento in più rispetto a dodici mesi, quando il Drago mise la freccia del sorpasso ai danni del mercato Usa, ormai retrocesso a numero due del mondo a quattro ruote.
Per la Fiat, questi numeri significano: a) una boccata d’ossigeno, perché il Brasile resta l’unica, vera fonte di profitto di Mirafiori; b) una speranza, perché l’ad di Tata Motors, colosso dell’auto indiana, ha di recente sottolineato che i legami con il Lingotto sono destinati a rinsaldarsi, nel breve; c) una nota di rimpianto perché la Fiat, complici gli errori del passato (anche dell’era Marchionne), in Cina è ancora sulla carta. Almeno nell’auto perché le prospettive cinesi di Iveco e di Cnh, le due anime della nascitura “Industrial” sono più che promettenti.
Intanto, a sorridere all’ombra della Grande Muraglia sono i tedeschi, seguiti da Gm e dai francesi, impegnati in una furibonda rincorsa per raccogliere almeno le briciole del grande boom. Prima che i produttori locali prendano la strada degli Usa e dell’Europa, come già fecero giapponesi e coreani.
L’auto frena. Almeno negli Usa. Gli esperti americani hanno corretto al ribasso le stime di vendita per il 2010 dagli 11,5 milioni di pezzi stimati ad inizio estate a non più di 10,6 milioni di veicoli venduti nell’arco dell’anno. Non sono numeri da tragedia, per carità. Ma nel 2005, quando il credito al consumo finanziava anche più del 100 del cento del prezzo delle auto nuove (grazie ai prestiti ed alla sopravvalutazione dell’usato), negli States si vendevano più di 16 milioni di auto. Numeri che, forse, non si rivedranno mai più.
Oggi, complice la fine del “cash for clunkers” e degli incentivi made in Obama, sia Ford e Gm, dopo il rimbalzo di primavera, devono rassegnarsi ad una frenata delle vendite nell’ordine del 20 per cento in un mese sul mercato di casa. Per fortuna di Gm, alla vigilia del ritorno in Borsa, arrivano buone notizie dalla Cina e dall’America latina. E, per fortuna della Chrysler targata Torino, l’evangelico “beati gli ultimi” funziona anche nel mondo delle quattro ruote: la più piccola delle case di Detroit aumenta le vendite del 7 per cento, in controtendenza rispetto alle sorelle maggiori.
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Il motivo? Chrysler non ha tratto vantaggi dagli incentivi. Sergio Marchionne, consapevole delle difficoltà del marchio sul mercato delle famiglie, ha puntato tutto sulle flotte aziendali o sulla tenuta in segmenti particolari, coperti da Dodge e Jeep. In attesa di nuovi modelli in grado di riconquistare quote di mercato a prezzi soddisfacenti. E così, mentre i concorrenti si preparano a “sparare” i nuovi modelli (con lo sconto) per il “giorno del Ringraziamento”, data d’avvio del mercato autunnale, Marchionne guarda più in là: a dicembre, quando i concessionari Chrysler, di tasca propria, dovrebbero consentire un lancio adeguato per la “500”. Intanto, nonostante la crisi dei Big di Detroit (e di Toyota) le marche “premium” tedesche, vedi Mercedes e, soprattutto, Posche, crescono del 30 per cento tra New York e Los Angeles, a conferma che la crisi c’è. Ma non per tutti.
Basta uno sguardo ai pontili del porto di Bremerhaven per capire che il dato funziona anche nel Vecchio Continente. La Germania fa il pieno un po’ ovunque, al punto che esiste un serio problema di saturazione degli impianti. E di fornitura dei componenti, come dimostra l’accumulo di vetture Porsche, già vendute, nei piazzali: mancano i chips per l’elettronica di bordo, a partire dalle radio… Non a caso il colosso dei chips, Infineon, ha ceduto la divisione wireless ad Intel per concentrare gli sforzi nell’automotive, di cui i tedeschi hanno la leadership assoluta, seguiti dalla Francia che, non a caso, moltiplica gli sforzi per la grande intesa: know how Renault per le utilitarie di Stoccarda in cambio di un aiuto nei segmenti luxury.
I dati Fiat, intanto, sono devastanti: -26 per cento, ai minimi da 17 anni. Certo, pesa la fine degli incentivi. Un anno fa una Fiat nuova di zecca, grazie agli aiuti che Berlino o Parigi garantiva alle auto di piccola cilindrata, costava meno dell’usato. Oggi, ahimé, si paga caro il prezzo per quegli acquisti incentivati. E così, per limitarci agli impianti italiani, il tasso di utilizzo è del 64 per cento a Mirafiori e a Melfi, del 24 a Cassino, solo del 16 a Pomigliano. Per fortuna che c’è Belo Horizonte, in Brasile, dove si viaggia sull’88 per cento e, soprattutto, Tichy, terra di Polonia, dove si marcia a ritmi tedeschi: il 93 per cento di saturazione per chi produce 500, Panda (da girare a Pomigliano) e, per conto della Ford, le piccole Ka.
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In sintesi, la battaglia per creare condizioni di lavoro, in Italia, simili a quelle polacche (o serbe piuttosto che turche) si deve fare adesso, quando in realtà c’è ben poco da perdere. Poi, però, sarà necessario passare alla fase più difficile: vendere le vetture (1,4 milioni secondo il Progetto Italia) che Marchionne ritiene necessarie per garantire la profittabilità degli stabilimenti italiani. Difficile, quasi impossibile riuscirci senza qualche “arma segreta” che, per ora, non si vede: i possibili modelli Chrysler (la “300” che si trasformerà in Berlina Lancia piuttosto che le Jeep da montare nell’impianto ex Bertone) possono garantire 150-200 mila pezzi. Le 400 mila Alfa previste dal business plan rischiano di rivelarsi un sogno (come le 300 mila macchine del piano precedente), visto che i nuovi modelli, causa la crisi del mercato che si riflette nelle tasche di Fiat, rischiano di slittare di almeno un anno.
E allora? Forse Marchionne ha in mente una nuova alleanza, in chiave asiatica, capace di assorbire il surplus della produzione italiana. Oppure medita la cessione, negli anni futuri, del marchio Alfa: forse a Volkswagen, che potrebbe fornire le munizioni finanziarie necessarie per la dote della grande Fiat/Chrysler senza dover cedere il controllo al partner Usa; forse ad un big asiatico che, in cambio, potrebbe aprire a Torino le porte d’Oriente. Ma nei segmenti alti perché nei comparti A, B e C dove i margini sono ridotti a pochi punti percentuali, nessuno può illudersi che Mirafiori o Pomigliano possano competere con Cina, India o Kragujevac, fabbrica serba del Lingotto dove gli operai incassano 400 euro al mese di paga. E la Bei, assieme al governo di Belgrado, anticipa i quattrini necessari per gli impianti.