«L’Italia ha bisogno di ritornare allo sfruttamento dell’energia nucleare per poter competere con gli altri Paesi». Lo ha ridetto il ministro Giulio Tremonti, nel suo intervento conclusivo al workshop di Cernobbio. «Si dice che l’Italia è un po’ debolina sul Pil – ha commentato Tremonti – ma è perché noi competiamo con Paesi che hanno il nucleare». Il capo del dicastero della Finanza si è detto fiducioso che il ritorno all’atomo non scatenerà polemiche tra favorevoli e contrari. «Forse questa è una questione che non ci dividerà tra guelfi e ghibellini – ha concluso- e voglio vedere chi avrà davvero il coraggio di dire no del tutto al nucleare». Il Forum Ambrosetti di Cernobbio, tra i grandi temi dell’economia, ha infatti scelto quest’anno di incentrare la propria riflessione sulla presentazione dello Studio “Il nucleare per l’economia, l’ambiente e lo sviluppo”. Vale la pena riprenderne i contenuti.
Il rapporto ha innanzitutto ipotizzato tre ipotetici scenari della situazione del Paese al 2030, con e senza nucleare. A seconda del mix energetico, più o meno nucleare, in 10 anni il risparmio sui costi di generazione si attesta tra i 32 ed i 57 miliardi di euro. Per quanto attiene alle emissioni di CO2 si eviterebbero emissioni per un valore variabile tra i 236 ed i 381 milioni di tonnellate annue con un cumulato in 10 anni superiore ai 10 miliardi di tonnellate, che pesate sui carichi economici sono altri 30 miliardi di euro sul periodo di 10 anni. In sintesi l’Italia risparmierebbe tra i 50 ed i 60 miliardi di euro in un decennio.
La sintesi presentata a Cernobbio non ha evitato di affrontare il tema della sicurezza, sia sul funzionamento complessivo degli impianti (safety) che sulla capacità di affrontare gli eventi esterni (security). In “14.000 anni” di funzionamento (400 impianti nucleari operativi per una media di circa 30 anni) ci sono stati due incidenti rilevanti: Three Mile Island nel 1979 e Chernobyl nel 1986. Gli impianti oggi in funzione, e, soprattutto, quelli di nuova realizzazione, sono in grado di prevenire questi incidenti e comunque hanno probabilità di incidente pari a un caso ogni 100 milioni di anni di funzionamento.
Le vittime accertate per il settore energetico hanno mediamente fatto registrare incidenti gravi ogni 0,78 GW di potenza installata nei settori tradizionali (idroelettrico o termoelettrico), mentre il nucleare si attesta ad un indice di 0,01. Il relatore ha quindi esaminato il tema della emissione di radiazioni: oggi l’uomo assorbe da sorgenti naturali dosi pari a circa 2-4 mSv mentre l’emissione radiologica degli impianti è pari a 0,001 mSv annui.
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L’analisi non ha neppure dimenticato il ricorrente e fondato quesito sullo smantellamento finale e lo smaltimento delle scorie, illustrando le tecniche di riprocessamento del combustibile esausto. Nessun problema infine per gli approvvigionamento del combustibile, ovvero delle miniere di uranio: la disponibilità di materia prima è assolutamente superiore ai 100 anni.
Lo Studio ha poi cercato di quantificare i benefici per l’industria nazionale in caso di eventuale partecipazione alla filiera di realizzazione degli impianti, sia in Italia che (soprattutto) nel mondo. Per le sole centrali nazionali, qualora se ne realizzassero 8 per circa 13.000 MW, l’impatto occupazionale è pari a circa 3.000 posti di lavoro in centrale più oltre 6.000 nelle aziende dell’indotto. Il mercato mondiale della componentistica è stimato in circa 400 miliardi per i soli reattori già pianificati.
Vista la connotazione economica dell’uditorio di Cernobbio, la presentazione ha concluso valutando gli effetti del ritorno al nucleare sugli aspetti economici più rilevanti per la “competitività dell’Italia”. Il ritorno alla produzione nucleare avrebbe come risultato una maggiore produzione complessiva tra i 5 e gli 11 miliardi e l’occupazione tra i 40 e gli 80mila anni-uomo. Per ogni euro di produzione creati dal risparmio di costo elettrico si genererebbero nelle diverse ipotesi circa 2,5 euro aggiuntivi nell’economia italiana.
Si pensi che il turismo, uno dei settori con più alto potere di attuazione, ne genera circa 1,8. A questi effetti complessivi va indubbiamente aggiunto il fine primario di riduzione dei prezzi dell’energia ed anche della loro volatilità (legate alle fluttuazioni improvvise e irrazionali del barile del petrolio). L’interessante ricerca non ha omesso di indicare altri fattori: la crescita del capitale umano e delle competenze, l’integrazione ottimale della filiera energetica, un nuovo posizionamento geopolitico dell’Italia e rafforzamento della centralità dell’Italia nei rapporti con i Paesi della sponda sud del mediterraneo.
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Dalla relazione è emersa anche l’urgenza di una maggiore azione di comunicazione. Del nucleare si parla poco: nei telegiornali nazionali, negli ultimi anni, si è parlato di nucleare non più di due minuti al mese, con una punta un poco più significativa solo nella metà del 2008, quando il tema fu rilanciato dall’attuale governo. Sui giornali stessa solfa: meno di un articolo al giorno. Si viene così a produrre questo fenomeno: da un lato l’Italia ha le competenze per il ritorno al nucleare, ma dall’altro sembra mancare di consapevolezza e resta clamorosamente e ingiustificatamente al palo, mentre il resto del mondo nell’ultimo anno ha ancora accelerato e nel frattempo investe e procede, dalla Cina agli Stati Uniti, dal Regno Unito alla Corea del Sud: si prevede che nel 2030 saranno funzionanti quasi 900 reattori, rispetto ai 438 oggi operativi.
Un ministro, quello più autorevole, ha quindi riaperto il dibattito sull’energia. Ma il governo di cui lui fa parte nel contempo blocca lo sviluppo. Il nostro Governo aveva annunciato subito il proprio intervento già nell’aprile del 2008 e, in poco meno di un anno, nel luglio 2009 fu approntata e approvata la legge quadro di riferimento; come da tabella di marcia, lo scorso febbraio, sono stati approvati i decreti attuativi. Tutto sembrava procedere fin troppo bene, ma tutto si è smorzato. Da oltre sei mesi a Roma si tace.
Un silenzio assordante: dalla costituzione dell’Agenzia per la sicurezza ai criteri di individuazione dei siti, dal confronto (opportuno oltre che necessario) con le Regioni al riconoscimento degli operatori industriali. Senza un adeguato impegno istituzionale e in assenza di un ministro allo Sviluppo Economico stiamo perdendo l’autobus. L’impegno esplicito e la mobilitazione di ENEL ed EDF potrebbero non bastare. Il dossier energia giacente presso il Ministero dello Sviluppo Economico è pieno di priorità; al palo non c’è solo il nucleare.
Dalle norme sul Risparmio Energetico alla disciplina delle rinnovabili, dalla competitività del mercato del Gas alle nomine per il prossimo rinnovo dell’Autorità per l’Energia o il documento sulla strategia energetica nazionale. Gli uffici di Via Veneto, sede del dicastero, sono oberati ed intasati per scadenze e mole di lavoro da una agenda fittissima. Nel contempo l’energia, quella vera che muove ogni paese e la sua economia, in Italia va spegnendosi.