La vigilia del referendum di Mirafiori coincide con la notizia che la produzione industriale italiana, dopo la pausa di inizio autunno è tornata a crescere: +1,1% rispetto a novembre, nonostante l’auto, con un calo dell’1,1%, non abbia partecipato al trend positivo. È una buona notizia, ovviamente, anche se il recupero del 2010, generato dalla ripresa mondiale, è legato quasi solo all’export. Ma non era poi così scontato che il made in Italy fosse in grado di tenere il passo con la domanda internazionale, come era capitato nel 2006, anno dell’ultima ripresa congiunturale del Pil nostrano.



In questi cinque anni sono cambiate, infatti, tante cose: la composizione del Pil mondiale, infatti, sta cambiando molto rapidamente e l’asse economico si sta spostando da Occidente ad Oriente. Per giunta nel 2006 l’auto, Fiat in testa, era stato uno dei motori più brillanti della ripresa, grazie anche all’effetto dei nuovi modelli. Eppure, nonostante la competizione internazionale crescente nei settori chiave dell’economa italiana, compreso il settore meccanica-automotive, l’export di casa nostra si avvia a chiudere l’anno con un rialzo del 7% circa, superiore ai tassi del 2006 quando il rialzo fu pari al 6,2%.



A conferma della vitalità delle nostre imprese, ci sono segnali confortanti sulla capacità di una parte dell’economia italiana di conquistare quote di mercato, non limitandosi a beneficiare della ripresa generale ma anche a guadagnare in competitività. Esemplare, in materia, il caso delle piastrelle, tradizionale punto di forza del made in Italy. La crisi del 2009 sembrava aver dato, in questo caso, il colpo finale a un’industria assediata dai concorrenti “low cost” o da altri competitors, rafforzati dagli acquisti di macchinari e impianti chiavi in mano forniti dai produttori di Sassuolo. Invece, la “gelata” del 2009, sull’onda della crisi immobiliare che ha investito l’Occidente, è servita solo a scatenare la grinta imprenditoriale dei signori della ceramica: gli investimenti in ricerca, innovazione, design, accompagnati da una cura drastica sul fronte dei costi, hanno consentito di aggredire la fascia alta del mercato con un recupero sul fronte del fatturato (+4,9%) e delle esportazioni (il 70% del valore), a tutela della leadership nel commercio mondiale per valore.



Qualche motivo d’ottimismo c’è. Ma non basta. Anche perché, sempre rispetto al 2006, risulta molto cresciuto in proporzione l’import, a dimostrazione, tra l’altro, del fatto che le imprese che esportano si avvalgono sempre meno dell’opera dei fornitori di servizi locali o di terzisti manifatturieri sostituiti da fornitori sul posto. Il boom dell’export, dunque, non crea abbastanza fatturato per le piccole imprese terziste che oggi sono meno competitive di un tempo. Piccolo, insomma, è sempre meno bello: in un mercato globale la crescita della produttività è legata con un filo diretto alle dimensioni che, grazie a una maggiore taglia critica, rendono possibili più ricerca, marketing e penetrazione sui mercati globali.

 

Tema ancor più urgente quando si è di fronte a una crisi sul fronte dei consumi privati che non ripartiranno di sicuro finché non s’invertirà la curva della disoccupazione giovanile, della cassa integrazione e dei “disoccupati scoraggiati”, cioè quelli che hanno rinunciato alla ricerca di un posto. O alla riduzione dei consumi pubblici: la crescita del 2006, all’inizio dell’ultima era Prodi, oltre ad avvalersi della spinta dell’auto, poteva contare su mezzo punto percentuale di spesa pubblica sul Pil, l’esatto opposto di oggi.

 

Data questa cornice, quale impatto potrà avere l’esito del referendum di Mirafiori? In caso di risposta positiva all’accordo, la grande industria italiana affronterà, seppur con un discreto ritardo sulla concorrenza, il tema della flessibilità della forza lavoro, con l’obiettivo di un aumento della produttività che, al contrario di quanto è accaduto nelle medie imprese (dove teniamo il passo con la Germania), è in forte calo rispetto alla concorrenza teutonica. È legittimo attendersi, ma probabilmente non nell’immediato, un potenziale aumento degli investimenti dall’estero, anche se la governabilità delle fabbriche non è certo il principale handicap del sistema Italia, attardato da infrastrutture fatiscenti, servizi spesso insufficienti e da una giustizia “pericolosa”, perché tarda e imprevedibile. Ma è assai dubbio che la vittoria dei “sì” dia il via libera a energie sommerse o a “spiriti animali” che, a giudicare dai risultati delle aziende che esportano, sono già all’opera.

Per far ripartire la macchina dell’economia, dopo questo passaggio comunque importante per riaffermare il principio della flessibilità del fattore lavoro, occorre che le energie sprigionate dalla riforma materiale di Mirafiori vengano messe al servizio di due riforme formali necessarie: un patto per il lavoro alla tedesca, in cui alla flessibilità effettiva (protetta da incursioni della magistratura o di minoranze turbolente) corrisponda un patto per il lavoro; una riforma fiscale che consenta di sgravare le imprese (che oggi concedono ai concorrenti del Nord 15 punti percentuali di fiscalità) dalle imposte.

 

Il tutto in una logica di politica economica, che è cosa ben diversa dall’uso strumentale che, molto malaccortamente, governo e opposizione hanno fatto della vicenda Fiat, utilizzata solo per scopi di politica “tout court”, senza cogliere l’occasione per impostare un piano di crescita industriale: in Francia come negli Usa o in altri Paesi l’auto elettrica è un obiettivo condiviso da governo, amministrazioni locali, università e industria. In Italia, che pure vanta decine di migliaia di auto (non Fiat) sul fronte del metano, del gpl e dei motori puliti, ogni forma di incentivo, legittimo per l’Unione Europea, è stato lasciato cadere. Salvando così (forse) le entrate fiscali nel breve. Ma ipotecandole per il futuro, visto che senza lavoro non si produce gettito: i miracoli “scudati” durano poco.