Procede l’inchiesta della Commissione Europea, avviata lo scorso novembre, per verificare se Google abbia danneggiato la concorrenza nel mercato europeo. A lamentarsi del più famoso motore di ricerca di internet sono Ciao di Microsoft, l’inglese Foundem e la francese eJuctice. Si tratta di portali che offrono anch’essi motori di ricerca per la comparazione di prodotti e servizi in vendita e che ritengono di non essere adeguatamente posizionati nell’indicizzazione dei risultati che Google presenta ai suoi utenti.



Spetterà alla Direzione Generale della Concorrenza di Bruxelles stabilire se Google, ai sensi dell’articolo 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Ue, stia abusando della sua posizione dominante favorendo i propri servizi – gratuiti e a pagamento – penalizzando quelli dei concorrenti. L’inchiesta si articola su più livelli e in questa sede si delimitano le considerazioni agli aspetti ritenuti fondamentali.



L’attuale posizione di Google nel mercato oggetto di osservazione – la ricerca in internet tramite motore – è indubbiamente dominante: in molti paesi europei la quota di mercato supera il 90%. Tuttavia la Commissione deve valutare con attenzione l’estensione di questo mercato nel dinamico mondo di internet e la sostenibilità della posizione di Google. Innanzitutto buona parte della ricerca in internet non passa più tramite i motori, e quindi tramite Google.

Il processo di frammentazione della rete (interessante in proposito il Briefing “The future of the internet” del settimanale The Economist del 4 settembre 2010) sta isolando le reti di Facebook, di Twitter e di Apple con le sue applications; per buona parte dei sempre crescenti utenti di queste reti l’attività di ricerca si rivolge alle informazioni contenuti in queste reti e sempre meno dai motori di ricerca aperti (anche perché a Google è impedito di accedere alle informazioni contenute in queste reti per procedere all’indicizzazione).



In secondo luogo, la Commissione deve considerare la sostenibilità di questo potere valutando le barriere all’entrata nel mercato e i costi che gli utenti dovrebbero sostenere per passare all’utilizzo di un nuovo motore di ricerca. Il giorno in cui dovesse arrivare un nuovo algoritmo capace di offrire risultati più rispondenti alle ricerche in internet, basterebbe poco – un click di mouse, niente da disinstallare – per abbandonare Google e rendere la sua posizione di mercato non più dominante.

 

Per quanto riguarda invece il comportamento di Google, sarebbe da considerarsi abusivo qualora i risultati presentati agli utenti siano ordinati in maniera da danneggiare deliberatamente società concorrenti. Quando facciamo ricerche online per comparare i prezzi dei gadgets elettronici o viaggi, tranne se non siamo affezionati a portali dedicati (per esempio, Kelkoo, Ciao, Trivago, Expedia) inseriamo semplicemente l’oggetto di nostro interesse nel box di Google, lasciandoci catturare dai primi siti della lista, nonostante siano migliaia quelli a nostra disposizione se solo avessimo tempo e voglia di controllarli uno a uno.

 

Ecco che l’ordine della presentazione dei risultati è fondamentale tanto per le aziende (che desiderano segnalare la loro importanza nel settore apparendo tra le prime) quanto per gli utenti (che vogliono trovare ai primi posti i risultati più rilevanti in funzione della ricerca condotta).

 

Da un punto di vista legale, verificata la sostenibilità della posizione dominante, basterà dimostrare che i risultati trovati da Google e il loro ordine di presentazione agli utenti è il risultato della semplice applicazione di un algoritmo oggettivo nella sua formulazione, trasparente e testabile tanto dai concorrenti quanto dalla Commissione Europea (sembra sia noto che l’algoritmo di Google svantaggia i portali in quanto offrono contenuti già presenti su altri siti).

Da un punto di vista strategico, un comportamento abusivo da parte di Google non sembrerebbe lungimirante. Parliamo di un gigante dai piedi d’argilla che deve costantemente avere la garanzia che il motore di ricerca sia il più efficace e il più efficiente. L’assenza di switching costs, infatti, offre agli utenti un potere sanzionatorio molto più elevato di quello minacciato dall’Ue.

 

Nel momento in cui dovesse diffondersi il sospetto che i risultati indicizzati dalle ricerche su Google sono distorti e/o non rispondenti alle esigenze dell’utente (considerando la complessità delle informazioni da indicizzare, ogni algoritmo è perfettibile) sarebbe immediata la fuga verso altri motori di ricerca; le aziende non troverebbero più conveniente farsi pubblicità con Google e il modello di business crollerebbe. Sarebbe un vero suicidio, no?