Il modello economico italiano, emerso negli anni Settanta sotto la pressione di sinistra e sindacalismo estremi, offre garanzie economiche di tipo irrealistico o socialmente ingiuste. Dovrà cambiare.
Ai lavoratori delle imprese viene offerta una garanzia di mantenimento del posto di lavoro indipendente dalla competitività dell’azienda sul mercato. Ciò è irrealistico, perché se l’impresa perde competitività poi non può mantenere la forza lavoro. A quelli del settore pubblico e connesso viene offerto sia il posto di lavoro a vita sia l’avanzamento di carriera in base all’anzianità e non al merito.
Ciò è socialmente ingiusto – con l’eccezione degli addetti alla sicurezza, giustizia e ai controlli che devono avere uno status speciale – perché spacca il mondo del lavoro tra persone che possono vivere senza rischio e quelle che sono quotidianamente esposte alla pressione competitiva del mercato. La percezione di ingiustizia, poi, è amplificata dal rigonfiamento abnorme dei posti di lavoro ipergarantiti finanziati con denari fiscali, con casi scandalosi per massa nel Sud e per clientelismo dappertutto, senza una loro chiara utilità.
Con la complicazione che la fatica competitiva di chi vive di mercato – artigiani, commercianti, imprenditori, professionisti, ecc. – non è riconosciuta dalla legge, in particolare dalle norme fiscali, con il risultato di ostacolare la loro azione produttiva. Come se l’operare sul libero mercato fosse un crimine o qualcosa da disincentivare.
Questo modello sia irrealistico che ingiusto non è stato finora riformato dalla politica perché spaventata dal dissenso della popolazione protetta il cui numero in Italia è pari, forse un po’ superiore, a quello dei non-protetti. Ma il modello dovrà cambiare per due motivi: (a) l’impossibilità di aumentare il debito pubblico non permette più di finanziare in deficit le garanzie economiche improduttive, in particolare gli enormi apparati pubblici; (b) la concorrenza globale impedisce di mantenere nelle imprese garanzie scollegate dalla produttività competitiva.
Un esempio del primo caso è il congelamento degli stipendi pubblici. Uno del secondo è la sconfitta del sindacalismo ideologico nel caso Mirafiori. Ma sarebbe pericoloso se il modello dovesse cambiare sotto la forza dei fatti senza una nuova teoria. La via giusta non è accettare una riduzione secca delle garanzie, ma creare nuove garanzie compatibili con la realtà. La priorità è trovarle e applicarle nel mondo produttivo, in quanto è il motore di creazione della ricchezza che poi può essere ridistribuita.
In realtà, sta già avvenendo da tempo nelle imprese sotto la pressione della concorrenza crescente che richiede una maggiore flessibilità nelle relazioni industriali. Ma questa non basta in quanto il modello generale resta rigido. La Germania ha aumentato la produttività del suo sistema industriale concentrando la garanzia sul lavoratore: può essere licenziato, sgravando l’impresa dal suo costo se improduttivo, perché accede a un salario statale.
L’Italia dovrebbe inventare qualcosa di meglio. Per esempio, un accordo tra imprese e lavoratori di dividere in due parti il salario: una fissa da tenere a un minimo e una variabile correlata agli utili dell’impresa. Con il diritto dei lavoratori di poter controllare la contabilità dell’azienda per accertarne il vero utile, pur senza interferire con la gestione direzionale.
Non so se l’idea possa essere applicabile, ma il punto è che si apre una nuova stagione ideativa per cambiare un modello insostenibile a cui tutti dovremo partecipare attivamente.