Ieri dall’Istat sono arrivati nuovi dati sconfortanti sulla disoccupazione in Italia: un giovane su cinque non studia, non lavora e ha rinunciato a cercare un’occupazione. Una situazione che riguarda anche il 48,9% delle donne. Dati allarmanti che arrivano il giorno dopo la diffusione del Bollettino economico della Banca d’Italia, che evidenzia i rischi per l’occupazione nel nostro Paese a causa di una sua crescita economica lenta nei prossimi due anni. Per questo, da Palazzo Koch si ritiene “essenziale che vengano rimossi gli ostacoli strutturali che hanno finora impedito all’economia italiana di inserirsi pienamente nella ripresa mondiale”. Per capire meglio lo scenario economico del nostro Paese, abbiamo interpellato Guido Gentili, editorialista de Il Sole 24 Ore.
Gentili, quali sono gli ostacoli di cui parla la Banca d’Italia?
L’analisi della Banca d’Italia spiega che il nostro Paese avrà nei prossimi due anni una crescita intorno all’1%, incapace quindi di promuovere da sola maggior occupazione e sviluppo, in un contesto europeo in cui ci sono paesi come la Germania (che cammina molto rapidamente) o la Francia che cresceranno più di noi. Tenendo conto del suo tradizionale punto di vista, quando la Banca d’Italia parla di ostacoli da rimuovere fa sempre riferimento alle cosiddette riforme strutturali che il nostro paese dovrebbe fare dal lato della spesa, delle tasse, delle liberalizzazioni e contro la burocrazia.
A quale di queste bisognerebbe dare la precedenza per favorire proprio la crescita?
Quando si parla di crescita è quasi automatico andare a vedere la situazione della tassazione oggi in Italia. Com’è noto, cittadini e imprese sono soggetti a una pressione fiscale che ha raggiunto livelli record e quindi dobbiamo cercare di abbassarla. Un’operazione difficile, dato il necessario rigore sui conti pubblici, ma credo che questa sia la strada primaria da battere: del resto era un punto del programma elettorale dell’attuale maggioranza alle elezioni del 2008. Sappiamo che sono stati attivati dei tavoli tecnici dal ministero dell’Economia per individuare la strada migliore, però arriverà il momento in cui dovremo decidere davvero come abbassare le tasse per cittadini e imprese.
E come si potrebbe arrivare a questo importante risultato?
Bisognerebbe fare una ricognizione rapida di quello che è possibile dismettere dal patrimonio pubblico. Penso, per esempio, alla rete del capitalismo municipale. Le risorse ottenute da queste dismissioni, unite a quelle derivanti dai progressi che si stanno facendo sul piano dell’evasione fiscale, possono essere usate per abbassare le tasse. Sarebbe un segnale importante, al di là del dato economico, perché darebbe un’iniezione di fiducia a cittadini e imprese. Soprattutto a quest’ultime, visto che, come ci ha detto un rapporto di Mediobanca, sono gravate da un 25% di tasse in più rispetto ai concorrenti tedeschi: un dato che certamente influisce poi sulla competitività delle nostre imprese.
Queste dismissioni, come anche lei aveva sostenuto nei mesi scorsi, potrebbero altresì servire ad abbattere il debito pubblico, riducendo così possibili spazi di manovra per la speculazione internazionale nei confronti del nostro Paese.
Esatto. Dare un colpo di accetta al debito può essere molto importante, anche perché è destinato a diventare uno dei parametri centrali della riforma della governance europea che si sta mettendo a punto. A partire dalla primavera, infatti, i programmi dei singoli paesi verranno valutati in sede europea in base all’effettivo impegno nella riduzione del debito pubblico. Senza dimenticare che quest’ultimo rende anche difficile mettere in campo risorse per favorire la crescita.
Il quadro politico non sembra però favorevole a questi cambiamenti.
La situazione tutto fa presupporre tranne che un cammino spedito verso le riforme. È vero che alla fine del 2010 è passata una riforma importante come quella dell’università, ma il quadro politico attuale non agevola la ripresa di un cammino riformista né dal punto di vista di un possibile accordo bipartisan, che pure dovrebbe esserci sui temi fondamentali, né all’interno della maggioranza, condizionata dal braccio di ferro politica-magistratura e dal cammino in bilico del federalismo. Se arrivassimo alle elezioni anticipate avremmo una campagna elettorale durissima, forse la più dura in assoluto, in una clima poco favorevole alle riforme. Se il governo riuscirà ad andare avanti e la maggioranza darà un segnale di coesione, quella fiscale potrebbe essere davvero una riforma alla portata di mano, dato che Fli e Udc (a parte il quoziente famigliare) non mi pare abbiano posto particolari obiezioni sul tema.
La riforma che sembra più a portata di mano è il federalismo. Lo si può considerare già un passo in avanti verso un fisco migliore?
Dobbiamo essere realisti, il federalismo non ci porterà dei vantaggi immediati: ci vorranno anni prima che la riforma vada a regime. L’importante è partire con il piede giusto, perché a voler mettere insieme tutte le richieste sia dei partiti politici che degli enti locali, cercando di accontentare tutti, si rischia di perdere il senso vero del federalismo, che significa responsabilizzare le classi dirigenti, specie al Sud, razionalizzare e tagliare la spesa, e mettere in moto un meccanismo premiante per chi è virtuoso o disincentivante per chi non lo è. Penso in particolare al decreto sul cosiddetto fallimento politico, oggetto di forti resistenze, che può permettere ai cittadini di verificare in modo trasparente l’operato degli amministratori locali e sulla base di questo decidere di premiarli o sanzionarli attraverso il voto. Si tratterebbe di una riforma importante.
Intanto l’anno è partito con i riflettori puntati su Fiat. Marchionne ha detto che il nuovo contratto di lavoro, dopo Pomigliano e Mirafiori, arriverà anche negli stabilimenti di Melfi e Cassino. Dobbiamo aspettarci un anno di conflitto sociale, vista l’opposizione della Fiom?
Dopo Pomigliano e Mirafiori, mi sembra inevitabile che il contratto arrivi anche a Melfi e Cassino: non ci possono essere due Fiat a velocità diverse all’interno dello stesso Paese. Mi auguro che su questo tema non venga avviato un iter giudiziario, con tanto di ricorso alla Corte Costituzionale contro il contratto di lavoro. Sarebbe un errore tragico, che ci porterebbe a una situazione di incertezza, di conflittualità latente, ma non per questo meno pericolosa. Meglio attenersi ai fatti: se produrre un’auto in un altro paese costa un terzo che in Italia, non possiamo non tenerne conto se vogliamo continuare ad avere un’industria automobilistica in Italia. Dopo il referendum di Mirafiori, sarebbe bene lavorare per aumentare il salario dei lavoratori, e mi pare che su questo ci sia più che una disponibilità da parte di Fiat, e per verificare che l’azienda faccia gli investimenti che ha promesso.
Il “modello Marchionne” sta imponendo una svolta alle relazioni industriali in Italia. Cgil e Confindustria, paradossalmente, si ritrovano insieme ai margini di questo processo.
Tutto il sistema della rappresentanza è ora oggetto di una verifica. Cgil e Confindustria sono state nel corso degli ultimi decenni i protagonisti assoluti delle relazioni industriali, a partire dall’accordo Lama-Agnelli degli anni ’70. Nel ’93 è stato fatto un accordo molto difensivo che ha dato il via alla cosiddetta concertazione, che col passare del tempo ha mostrato i suoi limiti. Già alla fine degli anni Novanta c’è stato un grande dibattito, con aperture anche nel mondo della sinistra sulla revisione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, bloccato poi dall’allora segretario generale della Cgil, Sergio Cofferati. Poi dalla concertazione siamo arrivati a parlare di dialogo sociale agli inizi del Duemila, gli anni del Libro Bianco di Marco Biagi, ma la Cgil ha di nuovo chiuso la porta. Fino ad arrivare al gennaio 2009, quando con Emma Marcegaglia c’è stato un accordo molto importante, il primo significativo passo verso un superamento della concertazione del ’93, firmato da Cisl e Uil, ma non dalla Cgil.
Come dire che Confindustria è stata solo un po’ sorpresa dal cambiamento repentino, ma può rientrare comunque in carreggiata.
Per Confindustria l’evoluzione delle relazioni industriali è un dato da cui non può prescindere. Nel momento in cui questo cambiamento procede con la velocità che si è vista, è chiaro che fa più fatica. Per il momento siamo in una situazione in cui è stata prospettata un’uscita temporanea di Fiat da Confindustria in vista di un “settore auto” che dovrebbe ricomporre il quadro. Stiamo a vedere come andrà avanti la vicenda.
(Lorenzo Torrisi)