Un giovane su cinque, in Italia, non studia e non lavora. O, forse, le cose vanno ancora peggio, visto che le statistiche dell’Istat si riferiscono al 2009: difficile che la situazione sia migliorata l’anno scorso. Anzi, a leggere i dati contenuti nell’ultimo Bollettino della Banca d’Italia il trend negativo accelera: il tasso di occupazione giovanile cala più della media nazionale, pur in consistente frenata; al contrario, segna ancora un aumento la componente straniera del mercato del lavoro.
“In un contesto di perdurante incertezza circa la forza della ripresa dell’attività – segnala la ricerca di via Nazionale – le imprese privilegiano le forme contrattuali più flessibili”. Ma il fenomeno non favorisce i giovani alle prime armi, in teoria propensi ad accontentarsi di entrare sul mercato del lavoro dalla porta di servizio. Al contrario, “la debolezza delle prospettive occupazionali tende a scoraggiare la ricerca di un impiego, soprattutto tra coloro che hanno scarsa esperienza lavorativa. Nel terzo trimestre del 2010 le forze di lavoro sono diminuite, al netto dei fattori stagionali, dello 0,4% rispetto al periodo precedente (-93.000 persone) e il tasso di attività è sceso leggermente”.
Tra le tante statistiche, forse, la più significativa riguarda proprio “l’indice di rassegnazione”, cioè il numero di chi un lavoro rinuncia financo a cercarlo. A questo soltanto, cioè alla minor partecipazione al mercato del lavoro da parte dei giovani, si deve la leggera flessione del tasso di disoccupazione, all’8,3%, dall’8,4% del secondo trimestre. Se si tenesse conto del sottoutilizzo dell’offerta di lavoro conteggiando anche i lavoratori che, scoraggiati, cercano un impiego con minore intensità, il tasso di disoccupazione salirebbe di almeno due punti percentuali.
Siamo di fronte a uno “spreco” sociale destinato a condizionare il nostro futuro per molti anni a venire. L’inattività giovanile, da fenomeno congiunturale, rischia di trasformarsi in una sorta di epidemia, una moderna “peste” che minaccia le potenzialità economiche del Paese, a partire dalla pretesa di far parte del plotone delle economie avanzate, in grado di competere nelle lavorazioni ad alto valore aggiunto. Anche perché la quota di giovani tra i 19 e i 24 anni che ha abbandonato gli studi prima di conseguire un diploma è pari al 19,2%, ovvero cinque punti percentuali sopra la media dell’Unione Europea.
Certo, l’Italia non è solo questo. Sale anche, tra i 30 e i 35 anni, il numero dei laureati (comunque ancora sotto la media Ue). E l’Italia, pur con tutti i noti problemi di produttività, difende con successo la sua quota di export sui mercati, anche grazie a una forza lavoro che ha ormai fatti propri ritmi e dinamiche della globalizzazione. Ma si ha la sensazione che questa Italia virtuosa faccia fatica a imporsi come modello per il futuro. Un futuro che al massimo diventa un futuro personale, in cui si accentuano le diseguaglianze, si alimentano i privilegi e le logiche opportunistiche e difensive.
Si profila un’Italia in cui, per dirla con Pier Luigi Celli, “nascere bene aiuta ad avere tempo”. Celli fece scandalo a suo tempo per aver indirizzato al figlio una lettera pubblica di questo tenore: “Figlio mio, devi lasciare l’Italia”. Oggi spiega che “se noi guardiamo alle attese, che sono sempre state nelle generazioni più giovani fattori potenziali di aggancio al futuro, vediamo che esse hanno subito oggi andamenti ondivaghi e, spesso, contraddittori. Per un verso moderate nelle loro pretese verso l’avvenire, come piegate in una sorta di rassegnazione all’impossibilità di costruire solidi presupposti nel presente, e dall’altro invece spinte al’eccesso sotto l’influenza di un individualismo esasperato, tutto virato a logiche predatorie e di carriera”.
Difficile non trovarsi d’accordo. L’incertezza che si respira in un Paese ripiegato su ss stesso, dove ogni progetto di crescita (vedi il caso Fiat) viene vissuto con scetticismo, paura, rassegnazione e convinzione che “comunque le cose andranno peggio” provoca tra i giovani rassegnazione, impotenza o spinta alla ribellione (il che è comunque meglio). E i padri, che sentono più o meno consciamente di aver abdicato al loro compito di costruire un futuro, fanno fatica a indicare una rotta, anche economica, che vada al di là delle promesse pietose.
In questa condizione, anche la rete di protezione familiare, il salvagente della società italiana, fatica ad avere un ruolo propulsivo: non basta che il risparmio accumulato dalle generazioni passate renda meno grave la crisi attuale. L’importante è che non si spezzi il ciclo di crescita che richiede il recupero di certi valori, a proposito del merito e della creazione di ricchezza. Occorre, insomma, che il “Noi credevamo”, titolo dello splendido film di Martone sul Risorgimento, torni a essere un “Noi crediamo”, trasformando la precarietà e l’incertezza in flessibilità, cosa possibile, comunque meno difficile del previsto se la battaglia per il lavoro non si riduce alla difesa del posto come diritto.
E facciamolo in fretta, senza illuderci che la soluzione stia nell’erogazione di risorse pubbliche che non ci sono: i capitali, al contrario, nel mondo non mancano purché ci sia una mobilitazione per rendere l’Italia un luogo profittevole e conveniente. Facciamolo in fretta, perché il mondo non ci aspetta.
Basti, per crederci, leggere “L’inno alla madre tigre” di Ami Chua, docente d’origine cinese di Yale che celebra il sistema educativo delle famiglie cinesi, impostato sulla severità e una robusta dose di competitività per cui al figlio/a si chiede di essere sempre il primo. “Voi occidentali tendete ad assecondare i figli – si legge – Noi no: il modo migliore per voler bene ai figli è prepararli alle difficoltà della vita armandoli delle competenze e del carattere più solido”.
Chissà, forse quel sistema prima o poi farà tilt. Ma, per favore, non limitiamoci a rispondere con qualche barzelletta o film comico. Una volta tanto prendiamoci sul serio. Come conviene a un Paese adulto.