Non c’è pace per l’Irlanda. Dopo l’indizione di elezioni anticipate per l’11 marzo prossimo, dopo le dimissioni del premier Brian Cowen da leader del Fianna Fàil, ora la fuoriuscita dalla coalizione di governo dei Verdi – partito minuscolo ma fondamentale per la tenuta numerica della maggioranza – pone ombre fosche sul futuro prossimo del paese, già colpito da un esodo di giovani verso l’estero come non si vedeva dai tempi della Grande Carestia: primo, una tale escalation potrebbe rendere necessaria l’ulteriore anticipazione dell’appuntamento con le urne; secondo, l’approvazione del budget da 6 miliardi di euro, conditio sine qua non per sbloccare il prestito di 85 miliardi di euro da parte di Ue e Fmi, rischia di scivolare su un cammino molto accidentato.



Non è un caso che ieri il ministro delle Finanze, Brian Lehinan, abbia convocato d’urgenza i Verdi e i partiti di opposizione per scongiurare ritardi o, peggio ancora, veti a quella che appare la manovra finanziaria più importante che il paese abbia mai varato dalla Rivolta di Pasqua del 1916 in poi. John Gormley, leader dei Verdi, ha immediatamente reso noto che i suoi uomini daranno il via libera al budget per senso di responsabilità, ricordando però come ora il paese abbia bisogno di «certezze, sia politiche che economiche».



Per ora le certezze sono solo due: già questa settimana il voto sarà anticipato a metà febbraio e, soprattutto, il dibattito sul budget richiederà almeno dieci giorni, tempo ritenuto necessario sia da Cowen che da Gormley per una lettura attenta degli articoli e per la presentazione di emendamenti. Ma cosa agita tanto i politici irlandesi? La piazza. Nonostante Dublino non abbia mai vissuto scene come quelle viste ad esempio ad Atene, è sempre più forte la convinzione dei cittadini che l’Ue stia punendo eccessivamente l’Irlanda, trasformandola di fatto in un protettorato tedesco: un argomento che peserà decisamente sul voto, con partiti massimalisti come lo Sinn Féin pronti a fare il pieno di consensi anche a causa del crollo annunciato del voto nazionalista moderato del Fianna Fàil.



Hanno ragione, gli irlandesi? Diciamo che proprio tutti i torti non li hanno, soprattutto dopo aver ascoltato le inaccettabili parole del presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, secondo cui l’Irlanda è interamente e unicamente responsabile per il disastro che ora stanno pagando i suoi cittadini: insomma, le vittime trattate da responsabili. Per Barroso, ex maoista (da studente era leader del Movimento Reorganizativo do Partido do Proletariado) che oggi pare aver ritrovato l’antica verve fustigatrice, «i problemi dell’Irlanda sono stati creati da un comportamento finanziario irresponsabile delle istituzioni finanziarie e da una mancanza di supervisione del mercato irlandese. Non è stata l’Europa a creare questa situazione fiscale e questo comportamento finanziario irresponsabili. L’Europa è ora parte della cura».

Maoismo allo stato puro, visto che non solo Barroso dimentica di valutare nel complesso quanto è accaduto ma assolve aprioristicamente l’Ue, addirittura definendola una soluzione: in effetti, per certe malattie anche il camposanto rappresenta una soluzione. Basterebbe che il buon Barroso rileggesse l’articolo 4 del report sull’Irlanda del Fmi del settembre 2007, prima che la crisi si innescasse, per calmare la sua ira: «Le performance economiche restano molto forti, supportate da politiche solide. Dati i forti fondamentali dell’economia irlandese e il serio coinvolgimento delle autorità nei confronti di politiche valide, il Direttorio si aspetta che la crescita economica resterà robusta nel medio termine».

Di più, per il Fmi l’Irlanda era in surplus fiscale del 3% sul Pil e il debito pubblico totale era solo del 12%: insomma, il paese aveva pressoché eliminato il suo debito pubblico. Infatti, lo staff di Barroso pose le proprie autorevoli firme sotto lo Stability Update del 2007, nel quale si concordava con il Fmi, riconoscendo che Dublino stava portando avanti una politica fiscale responsabile: insomma, o Barroso sbagliava nel 2007 o sbaglia oggi riscrivendo la storia.

 

Certo, il regime fiscale irlandese sulla proprietà garantì la creazione della bolla immobiliare e mascherò per molto tempo la reale vulnerabilità dell’economia irlandese, ma tra il 2004 e il 2007, periodo in cui Dublino varcò la linea del rischio, nessuna autorità europea aprì bocca al riguardo. Ecco perché oggi i cittadini chiedono conto in primo luogo ai loro rappresentanti e poi all’Europa per la cura da cavallo e la cessione di sovranità che si trovano a dover pagare per colpe non loro: salvare l’Irlanda non significa aiutare magnanimamente i suoi contribuenti, ma salvare le banche irlandesi (a loro volta salvate dallo Stato con i costi che questo ha comportato, rendendo necessario il bail-out) verso cui gli istituti britannici, tedeschi e francesi sono grandemente esposti.

 

Insomma, il buon Barroso è passato dall’opposizione al regime di Salazar al ruolo di esecutore dei diktat tedeschi: questo lo rende nervoso, è comprensibile, ma sfogare la propria frustrazione sugli irlandesi proprio non serve. Parliamoci chiaramente: se voi foste dei cittadini irlandesi onesti, che hanno sempre lavorato e pagato le tasse fino all’ultimo centesimo, non sareste vagamente irritati con l’Ue, visto che questa prende a prestito denaro al 2,59% e chiede all’Irlanda un tasso del 5,8% per ottenere il prestito salvavita? Va bene guadagnarci sullo spread del differenziale tra i tassi, ma trasformare i salvataggi in investimenti fruttuosi con un aggravio dello 0,8% in più rispetto a quanto chiesto alla Grecia appare davvero un insulto: ci troviamo di fronte a una margine deliberatamente punitivo verso Dublino.

 

Chi abbia imposto questa condizione è noto: la Germania, in ossequio al suo principio di “ultima ratio”, ovvero rendere i costi dei salvataggi talmente pesanti a livello di termini di pagamento da trasformarli nell’ultima opzione possibile per qualsiasi governo (come se questi si divertissero a farsi salvare senza motivo). Un tasso d’interesse al 5,8% per un’economia che ha conosciuto una contrazione nominale attorno al 23% del Prodotto nazionale lordo non è una soluzione percorribile, tali dinamiche del debito non sono fattibili. Soprattutto, ripeto, guardandoci con onestà alle spalle.

 

Volete credere che Barroso, nel 2009, non abbia letto il report della Banca Mondiale intitolato “What went wrong in Ireland” e scritto dal professor Patrick Honohan, oggi governatore della Banca centrale irlandese e membro del consiglio della Bce? Se così fosse, non avrebbe fatto il suo dovere. Ma siccome lo ha fatto, sa perfettamente quale fosse la tesi – globalmente ritenuta credibile – di fondo: l’economia della ex Tigre celtica è uscita dai binari solo dopo aver adottato l’euro e lo ha fatto in maniera così netta proprio a causa dell’euro. Scriveva Honohan: «I tassi di interesse reali tra il 1998 e il 2007 erano mediamente al -1%, rispetto al +7% dei primi anni Novanta».

Insomma, abbiamo vissuto un periodo di economia turbo e altamente dinamicizzata con tassi di interesse reali negativi per una decade (e non ricordiamo intemerate al riguardo da parte di Barroso): «L’adesione all’eurozona ha certamente contribuito al boom della proprietà e al deterioramento della competitività salariale. Certamente questi sbilanciamenti e disallineamenti avrebbero potuto sostanziarsi anche al di fuori dell’unione monetaria, ma le antenne della politica non sono state risintonizzate sull’Irlanda. I segnali di allarme sono stati silenziati». Certamente i politici irlandesi hanno compiuto degli errori, ma avrebbero potuto davvero evitare una bolla distruttiva?

 

Basti guardare il parallelo odierno con la Spagna, altro paese vittima del boom del real estate, per farsi un’idea: la Banca centrale spagnola è notoriamente riconosciuta come una delle meglio gestite, pioniera della “previsione dinamica”, ma nonostante questo non ha potuto contenere gli effetti di quei tassi d’interesse e quel regime monetario. Insomma, i disastri seriali che stanno squassando i periferici dell’Ue non possono essere attribuiti unicamente – come fa Barroso – alle vittime: anche perché il numero uno della Commissione Europea dovrebbe andare a rileggersi alcuni suoi discorsi fino al 2007, quando citava a ogni piè sospinto l’allora Tigre celtica come modello per l’Europa dell’Est.

 

Ma tant’è, si sa che le parole dei politici vanno spesso interpretate e prese per ciò che sono, ovvero propaganda o dissimulazione. Una cosa è certa: nonostante la Germania continui a mostrare la faccia feroce rispetto all’aumento del fondo di salvataggio Ue e getti ombre sull’esito del vertice straordinario del 4 febbraio prossimo, i mercati sono certi che alla fine Berlino cederà e farà – come ha dichiarato la stessa Cancelliera Merkel – tutto il necessario per salvare l’euro e l’eurozona.

 

Dati diffusi ieri nella City dimostrano, infatti, che la domanda per contratti usati come difesa dal declino dell’euro stanno letteralmente scomparendo dai mercati al tasso più veloce dal settembre scorso, sintomo che gli speculatori stanno correndo a chiudere le loro scommesse sul crollo della moneta unica, un modello che solitamente preannuncia un apprezzamento della valuta di circa il 13% nei due mesi seguenti.

 

Nonostante i tentativi di Berlino, dunque, pare che la vecchia Europa ce la farà anche questa volta: a quale prezzo, politico soprattutto, però?

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