Il 9 agosto scorso ilsussidiario.net pubblicava un mio articolo intitolato “Mentre la Russia brucia c’è qualcuno che guadagna” nel quale mettevo in guardia dal rischio di agflazione (l’inflazione agricola) per l’anno appena iniziato, a causa del bando dell’export di grano russo a seguito dei devastanti incendi e della speculazione che avrebbe sfruttato l’occasione per fare qualche miliardo di dollari facili.
La mia previsione è stata confermata domenica dal numero uno del gigante Unilever, Paul Polman, che alla vigilia del suo intervento al vertice di Davos parlava di «situazione che sta entrando in territorio pericoloso a fronte di una domanda che sovrasta l’offerta e di prezzi in continua crescita». Magra soddisfazione, lo ammetto. Il problema è che quanto sta accadendo nel Nord Africa, con strade straboccanti di gente che chiede la testa dei vecchi regimi in nome del pane, è diretta conseguenza di questa situazione: certamente quella voglia di cambiamento è reale e alcuni di quei leader hanno tratti pesantemente dispotici, ma sono in molti a beneficiare di quei disordini e del regime change in atto.
La guerra, ormai, si fa con i fondi speculativi: costano meno dei caccia e, oltretutto, fanno anche fare un sacco di soldi. Oggi come oggi il mercato delle commodities è una sorta di bazar senza regole, gestito insieme da burattini e pescecani alla faccia dei fondamentali reali dell’economia (i quali, ad esempio, stante la perdurante crescita a ritmi da lumaca non giustificano affatto il petrolio oltre i 90 dollari il barile e con proiezioni a 115 dollari nel corso del 2011, grazie anche alla politica da iena dell’Opec) e della gente che muore di fame o, come accade nel mondo occidentale, vede i beni prima necessità salire in continuazione, con l’inflazione che galoppa stante l’impossibilità per le banche centrali di alzare i tassi d’interesse.
Parlavamo di burattini, ve ne racconto qualcuno. Tre giorni fa il prezzo del cacao a Londra è salito a 2.225 dollari alla tonnellata, il picco maggiore dal maggio scorso, dopo l’annuncio del presidente della Costa d’Avorio, Alassane Ouattara, di un bando sull’export per un mese al fine di tagliare i finanziamenti al suo rivale politico che non ne riconosce la leadership dopo le elezioni: il paese è il primo produttore al mondo di cacao, in grado con le sue mosse di contrarre un terzo della richiesta globale della commodity. Il giorno dopo, cambio di rotta: l’export resta bandito tranne che per un giorno alla settimana: e il prezzo va giù.
Già, il prezzo della barretta di cioccolato che magari avete ora tra le mani dipende dai cambi d’umore del presidente della Costa d’Avorio e dai suoi giochini politici. Oltre che, ovviamente, dall’appetito degli speculatori che giocano con i futures no delivery – ovvero acquistano diritti a prezzo concordato senza però farsi poi recapitare il cacao fisico, di cui ovviamente non hanno bisogno – in quel vero e proprio casinò che è il LIFFE di Londra, il mercato in cui vengono trattate queste commodities alimentari oltre a quelle metalliche e altro. E dove nel luglio del 2009 Anthony Ward della Armajaro Holdings portò il prezzo del cacao a un massimo da 32 anni e si meritò l’appellativo di “Choc Finger”.
All’epoca molte aziende del settore scrissero al LIFFE denunciando la mancanza di trasparenza e l’eccessiva speculazione tesa a far alzare i prezzi, ma nulla accadde. Anzi. Ma cosa fece il buon Ward? Acquistò 241 mila tonnellate di cacao, creando un corner dell’offerta (ovvero detenere un tale quantitativo di un bene da poterne influenzare l’andamento dei prezzi), detenendo abbastanza materia prima da poter produrre qualcosa come 5,3 miliardi di barrette di cioccolato: insomma, se Ward vuole può imporre a tutti i produttori del Regno Unito di alzare i prezzi dei prodotti che voi comprate al supermarket.
D’altronde, fare un corner con le regolamentazioni attualmente in vigore è facile: si può comprare la commodity in grande quantità e stoccarla facendola venire a mancare sui mercati oppure acquistare contratti futures da vendere più tardi, quando il prezzo sarà salito e quindi anche la domanda, senza ricevere nemmeno un’oncia di prodotto fisico. Che dire, ad esempio, di “Mr. Copper”, al secolo Yasuo Hamanaka, trader giapponese che ha passato otto anni in galera (uno dei rarissimi casi) per aver provocato enormi perdite nel corso della sua decade di accordi off-the-book sul rame, un giochino costato qualcosa come 2,6 miliardi di dollari? Hamanaka comprò un milione di tonnellate di rame, nel corso degli anni, nel tentativo di mantenere alto il prezzo: a un certo punto della sua folle avventura deteneva circa il 5% della disponibilità mondiale di materiale.
Ci sono poi, andando indietro nel tempo, i “golden boys”, ovvero i finanzieri Jay Gould e James Fisk, che nel 1860 cospirarono un piano per creare un corner nel mercato aureo di New York. Andò male anche a loro, poiché l’allora presidente degli Usa, Ulysses S. Grant, scoprì tutto e ordinò al ministro delle Finanze di vendere abbastanza oro da mandare in frantumi il loro piano. Il quale, però, riuscì comunque a destabilizzare i mercati e fece conoscere agli Usa il loro primo Black Friday, il 24 settembre del 1869.
Ci fu poi la “cospirazione della cipolla”, quando nell’agosto del 1958 il Congresso Usa fu costretto a emanare l’Onion Futures Act, che bandiva il commercio di futures sulle cipolle dalla Chicago Merchantile Exchange. I prezzi del vegetale, infatti, crollarono in maniera incredibile nel 1955: si passò dai 2,75 dollari per sacchetto a circa 15 cents, più o meno il prezzo del solo sacchetto che conteneva le cipolle. La lobby degli agricoltori Usa riuscì a convincere la politica a intervenire denunciando il tentativo di mettere in corner il mercato delle cipolle, ma in quei quattro anni molti operatori fecero miliardi.
E che dire dei fratelli Nelson e William Hunt, i quali tra il 1979 e il 1980 detenevano derivati sull’argento pari a metà della produzione annuale del metallo? Un caso clamoroso di corner: nel 1979, il prezzo dell’argento salì da 6 dollari l’oncia al record di 48,70 dollari l’oncia: peccato che i fratelli Hunt presero a prestito enormi quantità di denaro per finanziare la loro speculazione e quando il prezzo artificialmente gonfiato crollò in pochi giorni del 50% si trovarono incapaci di far fronte ai loro obblighi, causando il panico sui mercati.
Ma non solo soggetti singoli possono cercare di sabotare i mercati, anche gli Stati. All’inizio degli anni Ottanta, infatti, la Malesia tentò di mettere in corner il mercato mondiale dello stagno sperando di far salire il prezzo e obbligando i traders alla London Metal Exchange a comprare da lei la commodity a prezzi più alti: peccato che il piano fu scoperto e la London Metal Exchange cambiò le regole, ottenendo contestualmente una forte offerta da parte di nuovi paesi produttori di stagno e l’apertura da parte degli Usa dei loro enormi depositi. Il giochino costò alla Malesia circa 500 milioni di dollari, prezzo che ovviamente ricadde sui suoi ignari e incolpevoli cittadini, salvo poi lamentarsi del Fondo Monetario e delle sue cure draconiane o dei vulture fund che agiscono come avvoltoi…
Attenzione, quindi, a leggere anche attraverso la lente d’ingrandimento della finanza gli eventi che in questi giorni stanno sconvolgendo il Nord Africa: gli interessi di chi vuol fare soldi e di chi beneficia politicamente della fine di un leader non più utile o manovrabile, spesso collimano. Quando non sono le volontà dello stesso soggetto.