L’occasione era ghiotta. E Silvio Berlusconi non se le è fatta sfuggire. Mai una patrimoniale, ha detto il premier in un’intervista a Il Foglio. Una soluzione del genere, dice il presidente del Consiglio “con il livello abnorme di pressione fiscale che si registra in Europa e in Italia, con i formidabili ostacoli che si frappongono alla crescita, sarebbe la via più breve per deprimere gli investimenti, mettere in fuga i capitali, impedire le riforme, riaccendere la corsa alla spesa pubblica improduttiva e alla creazione di nuovo debito”. Invece, “bisogna fare esattamente il contrario: liberalizzare, privatizzare, riformare e incentivare la crescita dell’occupazione qualificata, della spesa per infrastrutture, dell’istruzione e della ricerca”.



Insomma, se tra qualche mese, come pare sempre più probabile, si andrà a votare, Berlusconi potrà agitare lo spettro della mannaia fiscale davanti a un elettorato assai sensibile, quando si tocca il tema della casa. Perché, per citare Pellegrino Capaldo, cioè il “supertecnico” che ha lanciato la proposta di un’imposizione straordinaria sugli immobili, “almeno il 20-25% degli italiani non ha una casa di proprietà”. Ergo, tre italiani su quattro son proprietari di casa. Facile capire che, in questo modo, la sinistra offre a Berlusconi un assist formidabile.



Ma, anche sotto l’attuale maggioranza, non mancano ragioni d’inquietudine per chi compra casa: si legge sul Il Sole 24 Ore che l’Agenzia delle Entrate, da quest’anno, intende imputare il corrispettivo pagato per l’acquisto di un immobile per intero al reddito presunto dell’anno del compratore. Insomma, corrono nuvole sinistre sul mattone. A danno della possibile ripresa dell’edilizia.

Al di là della convenienza politica e delle promesse elettorali, il tema è dunque senz’altro rilevante e urgente. Come è ben noto, a fine 2010 l’Italia è stato l’unico tra i Paesi Ocse a chiudere l’esercizio con un avanzo primario del bilancio pubblico. Ma, a causa dell’onere sugli interessi del debito pubblico, il disavanzo sfora il tetto del 5%. E, come rileva l’indagine congiunturale della Confindustria, questa spada di Damocle è la causa principale delle difficoltà crescenti del Bel Paese ad agganciare la ripresa internazionale. Qualcosa, insomma, occorre pur fare per abbassare la febbre del debito, che continua a oscillare attorno al 118-120% del Pil. Ma come?



Le strade possibili sono due: l’arma dell’inflazione monetaria o la scure fiscale. La prima terapia ha il vantaggio di accrescere la propensione al consumo e di erodere i salari reali, a vantaggio della competitività delle imprese. Non solo. L’inflazione gioca a favore del debitore, nel nostro caso innanzitutto lo Stato, e funziona come una vera e propria patrimoniale nei confronti delle attività non reali, come i titoli del debito pubblico. Una soluzione di questo tipo, al di là delle affermazioni ufficiali, è alla base delle strategie del governo conservatore di David Cameron, nel Regno Unito, dove però, a differenza di quel che avvenne in Italia a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, l’uso aggressivo dell’inflazione si accompagna a una drastica manovra di taglio della spesa pubblica.

Forse Giulio Tremonti invidia la libertà di manovra del cancelliere allo Scacchiere britannico. Ma è perfettamente consapevole che, al’interno di Eurolandia, non è lecito pensare a un uso aggressivo dell’arma dell’inflazione. Jean-Claude Trichet, al proposito, è stato chiaro: la Bce accetterà solo scostamenti marginali all’obiettivo del 2% di variazione dei prezzi (anche se ha precisato che la politica di sostegno ai Paesi a rischio e il controllo dell’inflazione non sono affatto inconciliabili). La Germania potrà accettare qualche sbavatura, magari anche uno sconfinamento fino al 3%. Ma non oltre.

 

E allora i Paesi a rischio, compresa l’indebitata Italia, dovranno operare soprattutto sul fronte fiscale. Anche qui esiste un bivio: o si procede per via di tagli alla spesa, all’inglese, oppure bisogna puntare a maggiori entrate. Il che, al di là della solita foglia di fico della lotta all’evasione fiscale, sta a significare nuove imposte, che possono riguardare lo stock della ricchezza esistente (vedi un’imposta patrimoniale), i flussi (cioè i capital gains) oppure le transazioni (vedi la Tobin tax o le varie imposte per finanziare l’economia verde).

 

In questa cornice, le proposte di Giuliano Amato e di Pellegrino Capaldo hanno quanto meno il merito di sollevare un problema reale, senza ricorrere al pragmatismo cinico di Tremonti, che da una parte leva risorse alla finanza locale, dall’altra lascia ai sindaci l’onere di assumersi, se passa la riforma federale, la responsabilità politica di chieder nuove imposte. Detto questo, l’impressione positiva cede il passo a una profonda delusione.

 

Si sta parlando di una tassa patrimoniale, una scelta sacrosanta e urgente in un Paese come il nostro che tassa troppo il lavoro e le imprese, ma usa una mano troppo leggera nei confronti della rendita finanziaria. Ma una patrimoniale seria, per essere efficace, richiede una fotografia fedele dei patrimoni e la mano di ferro nei confronti delle manovre elusive dei più ricchi. Non solo. Qui, al contrario, prevale la logica dello scippo, la stessa adottata dal governo Amato nel 1992, quando venne imposto un prelievo forzoso sui conti correnti.

Per giunta con una logica ariostesca: è giusto, dice Capaldo, che lo Stato incameri una parte del plusvalore del patrimonio immobiliare, cresciuto di “centinaia di volte” negli ultimi decenni. Insomma, un’anziana signora che ha sempre vissuto in via della Spiga dovrebe pagare alcuni milioni per un valore virtuale mai incassato. Difficile da calcolare, del resto. Perché chi fissa l’anno di partenza? E chi rimborserà ai cittadini la minusvalenza che sarà legata al crollo dei prezzi degli immobili all’avvio di un balzello del genere?

 

Oltre a queste prime impressioni, c’è da dire che da questi sfoggi di fantasia finanziaria si ricava un’impressione davvero inquietante: il centrosinistra, anche nelle sue espressioni più moderate, dimostra un’implicita ma totale sfiducia in merito alla possibilità di ridurre la spesa. Il centrodestra, al contrario, elenca una serie di ipotesi politiche più convincenti e liberali.

 

Ma alle parole non seguono i fatti. Anzi, sale la sensazione che le riforme federali si traducano in maggiori oneri e, di riflesso, in più tasse riscosse da uffici che minacciano di moltiplicarsi a velocità estrema. In cambio, non si ha notizia di iniziative di effettive ed efficaci operazioni di privatizzazione in cantiere. O che si stiano mettendo le premesse per rendere attraente agli occhi di operatori internazionali ipotesi di investimenti nel nostro Paese che, con un tasso di crescita del Pil pari all’1% (quando va bene), non ha certo un grande appeal in un modo ben altrimenti dinamico.