Anno nuovo, crisi vecchia. Anzi, no. Per il Centre for Economic and Business Research (CEBR), infatti, la previsione più probabile per il 2011 è quella di una nuova ondata di crisi del debito a causa delle enormi necessità di rifinanziamento che gravano su banche e governi.
Solo gli istituti di credito europei si troveranno a dover racimolare sui mercati oltre 400 miliardi di euro nella prima metà di quest’anno a cui vanno uniti i circa 500, nello stesso arco temporale, degli Stati (oltre 400 solo per Italia e Spagna) e inoltre centinaia di miliardi di euro di debito legati ai mutui andranno a maturazione: insomma, il rischio potenziale di caos sui mercati del credito è alto.



“Ciò a cui stiamo assistendo chiaramente in questo momento ha il potenziale di tramutarsi in un secondo credit crunch. E purtroppo questa volta rischia di essere peggiore del precedente”, dichiara Celestino Amore, nome rassicurante ma mente lucidissima da presidente della IlliquidX, azienda specializzata nel piazzare il debito cosiddetto hard-to-price, secondo cui “i governi sono stati in grado di rallentare il processo ma i problemi non svaniscono da soli. Là fuori ci sono migliaia di miliardi di dollari di debiti che vanno rifinanziati o venduti”. Insomma, prepariamoci a una corsa alla vendita degli assets simile a quella che ha dato il calcio d’inizio al credit crunch del 2007.



Inoltre, molti manager di fondi e altri investitori istituzionali stanno cercando già ora di ridurre la loro esposizione all’obbligazionario, segnale che ci dice chiaramente che non ci sarà sufficiente domanda per comprare il debito che banche e governi devono vendere.  Molte banche, infatti, stanno già creando uffici addetti alle cosiddette “get ugly early strategies”, ovvero “prime strategie per quando si mette male”: insomma, si tenta di aiutare i clienti a vendere i bond il prima possibile, visto che in molti vedono proprio gennaio come il mese della grande svendita.



D’altronde, la stessa Bce nella sua ultima review sulla stabilità finanziaria ha parlato a chiare lettere di “crescente competizione per il finanziamento”, soprattutto tra i cosiddetti periferici: identica analisi fatta dalla Bank of England poche settimane fa. Ma c’è anche un’altra previsione per quest’anno, sempre elaborata dal CEBR, in base alla quale le possibilità di sopravvivenza dell’euro in questa forma sono solo al 20 per cento: “E se l’euro non si spezzerà, questo sarà l’anno in cui si indebolirà sostanzialmente fino a raggiungere la parità col dollaro”, profetizza Douglas Williams, capo economista del centro.  Insomma, sui mercati il sentiment non è affatto positivo.
 

E, purtroppo, da una decina di giorni fondi e banche d’affari a Londra stanno tenendo sotto stretta osservazione, per usare un eufemismo, proprio il nostro paese. La scorsa settimana vi davo conto dell’ulteriore innalzamento dei rendimenti che il Tesoro ha dovuto pagare alla poco entusiasmante asta per piazzare 8,5 miliardi di euro di bond semestrali (1,7 per cento contro l’1,48 del mese prima), ora vi confermo che anche lo yield del decennale è salito di 10 punti base al 4,86 per cento: siamo vicini alla soglia psicologica, già rotta dalla Spagna, del 5 per cento. Inoltre, a confermare una tendenza allarmante ci ha pensato la Bce dopo aver reso noti i dati sui depositi M1, scesi del 2,8 per cento negli ultimi sei mesi nel blocco formato da Italia, Spagna, Grecia, Irlanda e Portogallo. Un qualcosa di comparabile, quasi un sottostante che replica l’andamento, del declino registrato all’inizio del 2008, prima della caduta in recessione: siamo in una sorta di "double dip" che minerà alla base tutti i piani di consolidamento fiscale nell’Europa periferica se non ci sarà una rapida inversione.

Per quanto riguarda l’Italia la contrazione della massa monetaria M1 è cominciata più tardi rispetto al resto dell’Europa del sud ma ora sta accelerando, segnale chiaro di un contraccolpo economico entro sei-nove mesi. Inoltre, lo scarso risultato registrato all’ultima asta di bond italiani dimostra a chiare lettere come il summit di Bruxelles di due settimane fa non abbia sortito alcun effetto per quanto riguarda il recupero della fiducia sui mercati. Neil Mellor, analista valutario alla Bank of New York Mellon, non ha dubbi: “I grandi investitori istituzionali stanno spostando fondi dall’Italia in larga scala, ruotando sul debito tedesco. I nostri dati al riguardo parlano chiaro e il trend di uscita dal debito italiano ricalca quanto avvenuto con quello greco o irlandese. Certo, non c’è paragone fra i tre paesi ma le dinamiche del debito del governo italiano sono davvero poca cosa".

Ma cosa rende molti analisti e investitori certi di questo peggioramento della situazione? Certo, la crisi del debito è reale ma di per sé potrebbe essere gestibile (sempre che la Bce non continui a metterci del suo per aggravarla insieme ai politici di ogni colore e schieramento): sono le storture ontologiche su cui si basa il sistema finanziario a fungere da detonatore della situazione ogni qual volta si va al di là del limite anche di pochi centimetri, ovvero quando si scopre anche di poco il collo dalla camicia e i mastini sono pronti ad azzannare. Sono due infatti le parole chiave per il 2011, rating e derivati. Partiamo dai primi che, teoricamente, dovrebbero essere un modo di esternalizzare la due diligence. Nei fatti, però, viviamo un colossale conflitto d’interessi: all’inizio, infatti, le agenzie campavano con i soldi degli investitori che chiedevano un giudizio su un investimento da fare, oggi invece la ricchezza è data dal fatto che forniscono giudizi a pagamento agli emittenti di debito invece che a chi investe.

Un po’ dura che il giudizio che chi ci paga vuole ottenere sia troppo difforme – in negativo – dalle sue aspettative: è un do ut des a danno del libero mercato. A questo, poi, dobbiamo anche aggiungere che i consigli di amministrazione e principali azionisti delle tre sorelle statunitensi sono banche d’affari, multinazionali e altri soggetti più che interessati dalla politica del giudizio: insomma, siamo di fronte alla logica del sei politico, peccato che in questo caso offrisse rating AAA a porcherie subprime. Ci sono poi i derivati, di per sé nulla di negativo. Anzi, uno strumento di copertura dal rischio. Non tutti, però.

Pensiamo ai cds, ad esempio, un qualcosa di strettamente correlato ai rating, ovvero agli upgrade o downgrade di un titolo, un debito sovrano o quant’altro. Questo strumento è stato paragonato, anche da me per facilitarne la comprensione, a un  contratto assicurativo ma è in realtà molto diverso. Superficialmente somiglia a un’assicurazione, poiché permette al compratore di acquistare una protezione nell’eventualità che un debitore non riesca ad onorare gli impegni presi. Se ciò si verifica, la società che vende la cosiddetta "assicurazione" è obbligata ad aiutare l’acquirente a recuperare le perdite.

Tuttavia, a differenza di un contratto di assicurazione, l’acquirente di un cds non deve necessariamente possedere una porzione dell’attività oggetto della speculazione. Anzi, l’investitore che scommette sull’inadempienza di un operatore ha ogni incentivo a fare in modo che questo avvenga. In questi casi, acquistare un cds è come stipulare un’assicurazione contro gli incendi su una casa che non si possiede e poi cercare di appiccare un incendio: una profezia che si autoavvera poiché nasce per avverarsi. Insomma, armi strategiche della speculazione che grazie a Phil Gramm, presidente della Commissione bancaria del Senato Usa dal 1995 al 2000, hanno ottenuto una corsia preferenziale e un bell’hanger in cui poter essere stipate, essendo beneficiarie di una clausola di esenzione dalla regolamentazione della Commodity Futures Trading Commission contenuta nel Commodity Futures Modernization Act, sia per i cds che per altri derivati "over-the-counter", ovvero trattati su piattaforme non regolamentate.

In una transazione otc, i due contraenti privati stipulano un contratto derivato (bilaterale) i cui contenuti non sono noti a nessun altro. Questo comporta una totale mancanza di trasparenza: nessuno conosce il grado di esposizione altrui, né i mercati o i titoli su cui è concentrato. Ad oggi, da Barack Obama e dal Congresso sono giunte molte promesse e bozze di riforma ma in queste ore la situazione è di business as usual, esattamente come nel 2007 prima dello scoppio della crisi.
Come da oltre trent’anni.

Un tipo di derivato chiamato "assicurazione di portafoglio" ha contribuito al crollo del mercato azionario del 1987, sempre i derivati hanno svolto un ruolo cardine nel tracollo del Long Term Capital Investment, hanno esacerbato l’impennata e la flessione dei prezzi del petrolio nel 2008 e 2009: e gli esempi potrebbero continuare. E’ proprio il combinato di questi due caposaldi della finanziarizzazione selvaggia a far impennare le quotazioni per una seconda ondata di crisi, molto seria, nel 2011 a tutto vantaggio dei maghi della finanza creativa: i derivati possono risultare destabilizzanti anche in altri modi, infatti, vanificando i tentativi di ristrutturare il debito e persino prestandosi a essere impiegati per provocare deliberatamente l’insolvenza di banche, imprese e intere nazioni.

Come si dice a Londra, "rings any bell?". Ovvero, non vi ricorda nulla questa situazione? Il petrolio è in pre-rally senza che i fondamentali macro lo giustifichino minimamente (anzi, la Cina sta conoscendo un rallentamento della crescita e un’impennata inflazionistica a due cifre), le commodities in generale sono sugli scudi, l’oro è ai massimi, l’argento anche e il rame, con contratti futures che accedono il quantitativo globale di minerale fisico disponibile, sta per diventare la nuova gallina dalle uova d’oro degli Etf creati dalle banche d’affari (con depositi e caveau vuoti ma "paper copper" a non finire) per i soliti allocchi, i cds sul debito sovrano continuano a salire, così come gli spread e i rendimenti obbligazionari dei periferici e gli ultimi downgrade effettuati dalle agenzie di rating hanno mostrato un tempismo e un accanimento decisamente sospetto.  Siamo seduti su un vulcano, per ora a salvarci dall’effetto domino è soltanto la dichiarazione della Cina che si dice intenzionata a proseguire l’acquisto sul lungo termine di debito spagnolo. Per quanto, però? E, soprattutto, a che prezzo?