Torna aria di elezioni anticipate, emerge finalmente chiaro l’asse Lega-Tremonti per il dopo Berlusconi e il premier è costretto, per l’ennesima volta, a ribadire che il paese non potrebbe permettersi il lusso di un voto a primavera. Anche perché i miliardi di euro di debito da piazzare nei primi sei mesi del 2011 sono tanti, circa 200 e la competizione con altri Stati per riuscire a finanziarsi sui mercati sta diventando davvero dura. In più, c’è il rischio di un ritorno all’azionario. Attualmente, ad esempio, le assicurazioni europee detengono circa il 5% dei propri assets in azioni, contro l’oltre 15% degli anni Novanta: un cambio di strategia non è improbabile, ma a fare paura è l’ipotesi di uno switch verso l’azionario dei grandi fondi, attualmente detentori in massa di obbligazioni. E una svendita di bond ha sempre conseguenze economiche, figuriamoci in un momento come questo.



Non vorremmo essere all’inizio di una nuova epoca, ovvero quella dell’impensabile: l’avvento dei vulture fund sul mercato del debito periferico europeo. Questi ultimi, altresì denominati “fondi avvoltoio”, sono fondi comuni, soprattutto americani, specializzati nell’investire su società fallite o “decotte”. Il rischio è altissimo, ma in caso il fondo riesca a risollevare la società e a pagare i suoi debiti, può realizzare grandi profitti. Il nuovo business dei “fondi avvoltoio” è quello di comprare, a prezzi stracciati, bond (obbligazioni) dei Paesi in via di sviluppo, vicini al default, che nessun’altro oserebbe toccare. E poi passano all’incasso con tutti i mezzi possibili, anche portando i debitori in tribunale. Si tratta dei paesi indebitati con l’acqua alla gola dell’Africa, del Congo Brazzaville, Zambia o dell’America Latina, messi nel mirino dai fondi statunitensi e dai loro finanziatori.



Molti fondi pensioni americani, infatti, per garantire interessi a doppia cifra ai loro sottoscrittori li hanno in portafoglio e quindi li finanziano. I fondi pensione Usa investono circa 80 miliardi di euro l’anno in hedge fund, alcuni arrivano fino al 30-35% delle loro quote in strumenti di investimento alternativi. Il perché è presto detto: offrono ritorni stellari. È il caso di Michael Francis Sheehan e della sua Debt Advisory International, un hedge fund attraverso il quale controlla una pletora di fondi avvoltoi, tra cui la Donegal International Limited, protagonista di questa avventura.



Nel 1979, per rilanciare un sistema agricolo arretrato, lo Zambia decise acquistare nuovi macchinari chiedendo un prestito alla Romania (15 miliardi di dollari). Vent’anni dopo, lo Zambia è ancora in debito. È qui che entra in campo Sheehan il quale, nel gennaio ‘99, attraverso la Donegal International Limited compra il debito zambiano per la cifra di 3 milioni. Nel marzo del 2005 i leader del G8 avrebbero annunciato a Gleneagles la cancellazione di oltre 40 milioni di debito contratti da 18 Paesi africani, tra cui lo Zambia: un alleggerimento del debito che ha prodotto un perverso effetto, ovvero rendere – almeno in parte – solvibili quegli Stati. Detto fatto, nell’aprile del 2005, la Donegal International Limited decide di trascinare in tribunale il regime di Lusaka, citandolo presso l’Alta corte londinese chiedendo un risarcimento pari a 55 milioni di dollari, sedici volte il debito originale: alla fine il giudice della Royal Court of Justice di Londra ridusse la pena del governo zambiano a 15 milioni di dollari di risarcimento, garantendo comunque a Sheehan un gran bel ritorno.

Difficile, molto, che si arrivi a un’operazione simile visto che la Spagna, ad esempio, non è lo Zambia e soprattutto perché dietro le spalle, seppur oggi gracili, di Madrid ci sono quelle finanziariamente e politicamente larghe di Bruxelles, ma l’ipotesi di una fuga dall’obbligazionario sovrano rischia davvero di essere un pericolo che l’Europa non può correre. Troppo il debito da piazzare sul mercato, troppo stringenti le necessità di finanziamento e troppo alti i rendimenti che si devono pagare a fronte di voci sempre più ricorrenti di haircuts, di dilazioni delle maturazioni, del semplice distacco della cedola senza interessi: gli Stati pensano a strategie di hedging, di difesa e così anche gli investitori.

 

Qualcuno, a fronte di rischi alti ma anche alti rendimenti potenziali, potrebbe tentare la scommessa: tanto più che una corte di giustizia pronta ad attaccare una scelta politica sovrana la si trova sempre, visto che tra un mese circa proprio la Corte costituzionale tedesca potrebbe sancire l’illegalità del salvataggio greco, bloccando di fatto anche quello irlandese. Un qualcosa che, se accadesse, potrebbe essere la dinamo della svendita obbligazionaria sui mercati e dell’inizio dei guai seri: in molti puntano quindi al rialzo sugli indici, prevedendo rallies borsistici artificiali garantiti dal dumping dei bond. Anche perché, si sa, l’azionario sa essere creativo: campa di posizioni che non restano aperte più di 11 secondi, basa le sue previsioni su Twitter, gioca con algoritmi ad alta frequenza che mostrano le carte dei giocatori in anticipo. Ma, soprattutto, vive di immaginazione.

 

Sentite questa. Fino a dieci giorni fa, la Zest era una scalcinata casa discografica londinese con i bilanci ridotti a un colabrodo e in banca un capitale di 630mila sterline. Poi, il 12 novembre scorso, la folgorazione: cambiare di punto in bianco il nome dell’azienda e quindi del titolo in Rare Earth Minerals Plc pur non cambiando minimamente il business in cui si è occupati. Detto fatto, l’azione ha guadagnato il 333% di valore all’Aim, la piattaforma per piccole imprese della Borsa di Londra, quadruplicando il valore da 0,35 pence con valutazione a 3,1 milioni di sterline a 1,52 sterline con valutazione a 13,5 milioni.

 

Per capire come sia stato possibile questo miracolo, bisogna partire dal significato insito nel nuovo nome scelto: rare earth. Ovvero, una serie di minerali largamente usati nei maggiori comparti industriali di cui sono un elemento fondamentale, soprattutto quello bellico per le guide dei missili. La definizione è un retaggio dell’800 e oggi forse indica più precisamente il fatto che sono pochi i produttori di questi materiali (sono difficili da trovare in concentrazioni che ne rendano conveniente lo sfruttamento) e ne controllano il prezzo realizzando immensi guadagni, condizionando le scelte strategiche di molte aziende (dai produttori di schermi ultrapiatti agli armamenti passando per il comparto auto) e, potenzialmente, facendo aumentare il valore delle società minerarie che li estraggono. Attualmente è la Cina a detenere l’80% di questa vera e propria gallina dalle uova d’oro e lo scorso luglio Pechino ha deciso un bando sull’export come ritorsione commerciale contro gli Usa: insomma, materiale dal valore strategico e anche economico enorme.

La Zest, ovviamente, non detiene alcun quantitativo di questi materiali, né ha licenze per aprire miniere al fine di ricercarli, semplicemente ha preso il nome e lo gettato in pasto agli investitori di quel mercato, l’Aim . Non è la prima volta che accade, visto che all’inizio dello scorso dicembre l’azione della Desire Petroleum replicò l’andamento miracoloso della Zest senza che i regolatori del mercato londinese avessero nulla da obiettare: tutto bene così. Secondo un broker che ha chiesto la copertura dell’anonimato, all’epoca le cosiddette “cash shell”, aziende con una quota di mercato azionario ma senza reale business, furono ammesse all’Aim, salvo vedere il loro valore collassare del tutto quando la bolla esplose e la Borsa di Londra decise di cambiare le regole. Operazione che, a quanto pare, non è servita a molto.

 

Contattato al riguardo, TD Waterhouse, un retail broker, ha confermato che la Rare Earth Minerals sei giorni fa è stata l’azione più trattata, prima per ordini di acquisto e quarta per ordini di vendita, forte dei 143 milioni di azioni passate di mano nonostante l’assenza di buone informazioni pubbliche sull’azienda. L’unico annuncio fatto dalla Rare Earth Minerals dal cambio di denominazione a oggi, infatti, è l’assegnazione di 98 milioni di opzioni a dirigenti, staff, consulenti e assistenti a 0,5 pence riscattabili in dieci anni. Insomma, una vero proprio gioco di puro illusionismo finanziario, come quello compiuto nel mese di gennaio, quando il titolo conobbe un’altra impennata, dopo l’assunzione di David Lenigas, un veterano del mondo delle penny stocks, come non-executive dell’azienda.

 

Nel consiglio di amministrazione della Rare Earth Minerals siede insieme a un solo altro membro ma è contemporaneamente direttore di altre 94 aziende, tra cui la Solo Oil, la Vatulouka Gold Mines e la LonZim: insomma, una sorta di guru. Peccato che alla ex Zest non sappiano nemmeno cosa siano miniere e minerali ferrosi: sanno però come inventarsi una vera miniera d’oro in casa. Sembra follia, è la realtà.