Dalla nefasta tangenziale di Mestre ha ereditato il marchio dell’imbuto più micidiale d’Italia, oltretutto lungo sei volte tanto: gli automobilisti che oggi grazie al nuovo passante superano indenni lo snodo veneziano, si ritrovano di colpo a passare da tre a due corsie una volta che imboccano l’autostrada in direzione Trieste.
Uno dei tratti più affollati della penisola dopo il crollo del muro di Berlino, che ha aperto i traffici con l’est europeo: dall’inizio degli anni Novanta vi si affollano 41 milioni di veicoli l’anno, con una media di 110mila al giorno, che nei mesi estivi balza a 160 mila, visto che l’arteria serve le spiagge venete e friulane, da Jesolo a Grado. E per tutto l’anno, a farla da protagonisti sono i tir che in sterminata colonna occupano le due corsie, causando troppo spesso incidenti anche gravissimi che costringono a chiudere l’autostrada per ore, seminando il caos nella viabilità ordinaria del Veneto centrale.
Per coloro che popolano quotidianamente questa gigantesca camera a gas open-air, il Natale 2010 finalmente ha portato un regalo atteso da anni: la posa della prima pietra della terza corsia nel primo dei quattro tratti in cui si articoleranno i cantieri tra Venezia e Trieste: 95 chilometri in tutto, di cui 55 in Veneto e i rimanenti in Friuli-Venezia Giulia. Il primo lotto, tra Quarto d’Altino e San Donà, lungo una ventina di chilometri, costerà 430 milioni di euro, e sarà pronto nel 2014: ci sarà ancora da soffrire per anni, ma almeno una prospettiva c’è.
Purtroppo, non mancherà il rovescio: per un problema risolto, due altri se ne aprono. Il primo riguarda l’inevitabile forte aumento di traffico che la terza corsia porterà con sé, e che secondo alcune stime comporterà una saturazione nel giro di pochi anni, se il sistema Nord-est non metterà mano a una drastica revisione della logistica, spostando quote consistenti dall’asfalto alla rotaia, dal trasporto privato a quello pubblico; e soprattutto, se non affronterà seriamente il nodo del completamento dell’alta capacità ferroviaria legata al corridoio 5 Lione-Budapest, che tra Verona e Trieste rimane tutt’oggi un buco nero.
Ancor più allarmante è la seconda questione. Intensificare ancor più i traffici con l’est europeo significherà inevitabilmente esasperare il confronto tra i sistemi-Paese, già oggi decisamente svantaggioso per i piccoli e medi imprenditori del Nordest. Non occorre andare lontano: basta spostarsi appena al di là del confine, in Slovenia o in Carinzia, per trovare un livello fiscale che grava sulle aziende per la metà di quello italiano; per imbattersi in un sistema burocratico snello ed efficiente, l’esatto opposto del nostro; per godere di una rete di incentivi agli investimenti che da noi è pura utopia.
Solo un esempio, per dare l’idea: da noi, l’attesa media per poter costruire un magazzino o un capannone è di 257 giorni, e sulle piccole e medie imprese grava una vera e propria tassa burocratica stimata in 15 miliardi di euro. In Carinzia, una nuova impresa riesce a entrare in produzione nel giro di appena un paio di mesi dalla domanda di insediamento. Tutto questo ha un chiaro risvolto politico, oltre che economico.
L’aveva capito già due anni fa Riccardo Illy, all’epoca governatore di centrosinistra del Friuli-Venezia Giulia, quando aveva segnalato il rischio della fuga delle aziende indotta dal carico fiscale: “Attenti, si può votare anche con i piedi. A un imprenditore di Gorizia bastano in fondo quattro passi per spostarsi in Slovenia”. Paese dove sono già sbarcate 600 aziende nordestine. E che, guarda caso, ha un’aliquota del 25% e medita di ridurla al 20%. Come la Carinzia, del resto. Come dire, dietro l’angolo.