Gli imprenditori italiani hanno nel cassetto quattro bilanci della loro azienda: uno è quello che riflette la situazione reale, che ripongono nel cassetto segreto; un secondo serve per la banca; il terzo è destinato al fisco. E il quarto? Beh, quello è destinato alla moglie. È quanto riferisce un economista inglese, David Goldman, specializzato nei paesi asiatici, in un articolo apparso poche settimane fa sulle colonne dell’Asia Times, per affrontare il tema del possibile interesse dei fondi sovrani di Cina, Singapore e del Middle East per l’economia italiana.
Attenzione. Goldman, che un po’ ci conosce, non aveva intenzione di offendere o comunque sminuire le virtù del Bel Paese. Anzi, l’economista riconosce (assai di più di quanto non faccia Confindustria o buona parte dei media di casa nostra) le qualità delle aziende di casa nostra. Salvo rilevare che su di loro pesa una “minus” pesante: l’onere di uno Stato costoso, inutile spesso dannoso che costringe gli imprenditori a spendere buona parte del loro tempo nel gioco dei quattro bilanci. L’Italia, è la conclusione paradossale, avrebbe solo da guadagnare a esser messa all’asta a suon di yuan o di quattrini in arrivo da Singapore. Quel giorno le imprese italiane potrebbero far davvero concorrenza ai rivali tedeschi su tutti i mercati, spesso meno bravi ma accompagnati da un’immagine ben migliore.
Di fronte a paradossi semiseri di questo genere si può reagire in due modi: o si prende cappello alla Frattini, rivendicando per l’Italia “un posto al tavolo delle potenze”, come ai tempi dell’Italia crispina, afflitta da complessi d’inferiorità; o si prende atto che l’autolesionismo sparso a piene mani dalla classe dirigente in questi anni sta producendo (anzi, ahimè, ha già prodotto) danni profondi alla credibilità che non verranno certo risolti in tempi brevi. Né aiuta il fatto che la sindrome italiana s’incastra in un quadro psicologico complesso.
L’economia mondiale vive, infatti, una dissociazione crescente tra la realtà effettiva e quella virtuale. La realtà di tutti i giorni, come hanno ricordato Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, è semplicemente drammatica. Nell’arco delle ultime tre settimane, dice il presidente uscente della Bce, la crisi da locale è diventata sistemica: le banche di Paesi che hanno la tripla A, vedi la Francia, non riescono a farsi prestare dollari negli Usa se non dietro garanzia della stessa Bce; intanto, tanto per truccare la drammatica necessità di raccogliere liquidi, Bnp Paribas o Credit Agricole avanzano le loro richieste attraverso le controllate italiane.
Draghi, invece, ha messo il dito sulle piaghe interne: guai a illudersi che qualche esercito straniero scenda nella Pensiola a portarci aiuto (ecco la tentazione evocata da Goldman). Non saranno i soldi del Fondo salva-stati a risolvere i nostri guai, se non sapremo intervenire su pensioni, flessibilità del lavoro e metter ordine in Sanità, Giustizia e Istruzione.
Parole sante. Ma ci crede qualcuno che un cambio di governo o di maggioranza si tradurrà nell’introduzione dei tornelli di Renato Brunetta (che stanno dando buoni risultati) anche nei palazzi di giustizia o nelle università nostrane? Meglio rifugiarsi nella realtà virtuale, quella che alimenta il rialzo delle Borse di questi giorni. Tutt’altro che irrazionale, intendiamoci.
Nel caso passi un piano di salvataggio del sistema come quello preannunciato da José Manuel Barroso, un fiume di quattrini, per lo più pubblici, investirà il sistema: per portare il Tier 1 al 9%, come anticipa il Financial Times, ci vorranno 275 miliardi di euro. Ma chi ha questi soldi, pari a cinque volte la manovra italiana?
Le soluzioni sono due: o si stampa moneta, con effetti inflattivi immediati, oppure si diluisce il problema accreditando gli assets in circolazione di un valore “virtuale” che nel presente non hanno. Per semplificare, basti l’aneddoto (vero) di un esperto in crisi aziendali. “Ricevo questa lettera da una banca: lei mi dice che gli assets offerti in garanzia valgono 100, ma entrambi sappiamo che non valgono più di 50. Per questo motivo Le chiedo di appostarli in bilancio a 120”. In fin dei conti nulla mi vieta di dire che la “crosta” che ho appeso in salotto, eredità della zia, valga come un Picasso.
La Borsa prende atto di quest’andazzo: ogni qualvolta si allontana il rischio collasso, comunque ben vivo, le azioni prendono il volo in ossequio a quest’inflazione da assets. Il giochino sembra perfetto, salvo che questa realtà drogata non serve a far ripartire la domanda o gli investimenti, ma resta confinata entro i recinti del salotto di casa, ovvero nell’economia virtuale (ben diversa da quella, più che reale, creata da Steve Jobs). Insomma, non si fa sviluppo.
Per riavviare il ciclo è necessario che l’economia virtuale e quella reale tornino ad avvicinarsi: ovvero che riparta un ciclo virtuoso di risparmi nei costi e di investimenti al servizio della domanda, che coinvolga tutti i fattori, non ultimo la redistribuzione del reddito. Altrimenti, continueremo a campare in un mondo schizofrenico, dove l’assurdo diventa realtà.
Come succede alla cartella delle tasse di Warren Buffet: 62 milioni di reddito lordo, imponibile di 39 milioni. Tasse pagate: 15.300 dollari. Neanche nell’Egitto dei Faraoni il sistema era così squilibrato. Senza nemmeno far la fatica di redigere quattro bilanci diversi.