Che cosa si può attendere il mondo dal meeting dei Venti Grandi del prossimo 3-4 novembre? Poco, o forse nulla. Salvo prender atto, già nel pomeriggio di lunedì 5 novembre (o al massimo la mattina del 6) che è in programma un nuovo appuntamento, stavolta davvero decisivo per le sorti dell’umanità: forse il prossimo vertice della Federal Reserve, piuttosto che la prima riunione della Bce presieduta da Mario Draghi. Ovvero, un qualche meeting cino-americano.



In realtà, come hanno dimostrato gli eventi degli ultimi mesi, il mondo sta attraversando una crisi strutturale lunga e difficile, che non può certo essere sbloccata o risolta da un vertice, una trattativa segreta o un’inversione a U improvvisa. È ormai evidente che all’origine della crisi c’è l’accumulo del debito da parte dei paesi occidentali; debito privato nel mondo anglosassone che nel corso degli anni è diventato anche debito pubblico; debito pubblico, in Italia soprattutto, che si è tradotto in mancata crescita e sviluppo, con grave danno per lo sviluppo e l’effettiva inclusione nel sistema delle giovani generazioni, con conseguenze drammatiche sulla fiducia delle famiglie.



Per invertire la rotta sarebbe necessario un atto d’imperio sul debito: un giubileo, tipo quelli che in epoca biblica (o ancor prima sulle rive dell’Eufrate come testimonia lo storico Nigel Ferguson), prevedevano la “remissione dei debiti” ai contadini rimettendo in moto il circuito dello sviluppo. Ovvero, un prelievo patrimoniale sostenibile nel tempo (guai alle una tantum) in grado di trasferire parte della ricchezza che in questi anni si è andata accumulando verso la punta della piramide (gli extra ricchi) a danno delle classi medie. Ma questo, in Italia e altrove, richiede una credibilità della politica che non è cosa di questi giorni.



Ovunque da Parigi a Berlino, passando per Londra e Madrid, governi e opposizioni deboli cercano di allargare l’area dei consensi con slogan deboli. La svolta, in teoria, potrebbe arrivare dagli Stati Uniti. Ma qui il tunnel è, probabilmente, ancor più buio e senz’altro lungo da percorrere. Gli States sono già impegnati in una campagna elettorale che durerà giusto un anno, senza che si possano prendere decisioni in materia fiscale che consentano di voltar pagina.

Le banche sono più parte del problema che della soluzione. Gli Stati invocano la ricapitalizzazione del sistema, il che in tempi brevi non può che avvenire attraverso un massiccio impegno di risorse pubbliche. Ma la necessità di aumentare il capitale è legata alla crisi del debito sovrano. È bizzarro pensare che una crisi legata al debito pubblico possa essere affrontata e risolta creando nuovo debito necessario per ricapitalizzare le banche. Meglio sarebbe ripensare i modelli di business che hanno dominato il sistema. Gli istituti di credito, così come sono cresciuti dalla metà degli anni Novanta in poi, sono figli di un’attesa di crescita infinita che si è tradotta in assunzioni, ricchi stipendi, applicazione di formule matematiche complesse per massimizzare la leva e spremere il valore delle praterie della nuova finanza.

Oggi, come è avvenuto nell’industria, occorre prender atto che quella stagione è finita. Tanti sportelli o branche bancarie vanno chiuse o vendute a qualcuno che saprà farne un uso migliore. È il caso dell’industria del risparmio, ad esempio. Banche più piccole e concentrate sul proprio mestiere (il finanziamento delle Piccole e medie imprese, quelle che non possono emettere obbligazioni) possono prosperare, purché sgravate di costi eccessivi. Come è successo all’industria dell’auto, tanto per fare un esempio.

La traversata del deserto imposta dalla crisi, insomma, sarà lunga e difficile. In parte, però, la società si è già avviata lungo la strada giusta. In Italia, forse, prima e con più determinazione che altrove. Lo dimostra il saldo primario del fabbisogno pubblico; le nuove regole sulle pensioni; la capacità delle imprese italiane di conquistare quote dell’export in una situazione estremamente difficile, quasi proibitiva sul fronte dei finanziamenti. Si può piangere, tanto per fare un esempio, sulla caduta delle commesse nelle infrastrutture sul mercato interno (-34% in cinque anni in termini reali), ma non per questo deve passare sotto silenzio il formidabile exploit di un settore, quello delle opere grandi e piccole, che dal 2010 realizza più della metà del fatturato oltre frontiera.

Insomma, sotto i cieli della crisi, l’Italia tiene meglio di paesi più strutturati (la Francia, ad esempio). Ma s’infligge pessima stampa. Causa una litigiosità politica vergognosa, che ha toccato il punto più basso (ma al peggio non c’è mai fine) in occasione della successione a Mario Draghi, capolavoro di autolesionismo che ha trasformato un grande successo per il Bel Paese, cioè la nomina a banchiere centrale di un italiano che gode di enorme prestigio, in una figuraccia, comunque vada a finire, degna dell’avanspettacolo più deteriore.

Per render merito al lavoro che le imprese italiane ci vorrebbe un forte recupero di credibilità e di autorevolezza. Solo così si potrà abbattere il veto incrociato delle lobbies che promettono di paralizzare le riforme in materia di lavoro, giustizia, istruzione e, soprattutto, sanità. Qualcosa che va al di là delle misure per lo sviluppo o del ritorno della politica industriale (per cui non ci sono soldi), ma che può essere ben più efficace. In questi anni, senza buttar via quattrini, l’Italia ha fatto di più che in certi anni di vacche grasse. Anche se, in maniera scriteriata, ha diffuso e continua a diffondere l’immagine di sé peggiore e deteriore. Un suicidio che chiama in causa forze di governo e di opposizione, le prime più delle seconde.

Negli anni Novanta l’abilità di Carlo Azeglio Ciampi riuscì a far apparire in giro per il mondo l’Italia migliore di quanto non fosse. Oggi subiamo la sorte inversa. Per colpa nostra e, per giunta, in un mondo ben più incerto in cui, come spiega Draghi, nessuno penserà a salvare noi se non vogliamo salvarci da soli pur avendone i mezzi. Nel frattempo, aspettiamo la lettera di nomina del nuovo governatore di Banca d’Italia: lo stellone salvi il Bel Paese.