Le imprese in Italia fanno sempre più fatica. A esistere, a sopravvivere, a nascere. Secondo un recente studio dell’International Financial Corporation, organo della Banca Mondiale che si occupa del settore privato, il nostro Paese è piombato, per quanto riguarda l’indice della competitività, all’87esimo posto. Su 183 Paesi. Non male, se consideriamo che, davanti a noi, ci sono Zambia e Mongolia. Un paradosso inaccettabile, secondo l’onorevole Raffaello Vignali che, contatto da ilSussidiario.net, spiega: «Siamo il Paese con il più alto tasso imprenditoriale, con un numero di imprese, in rapporto alla popolazione, tre volte superiore alla media europea». Le difficoltà, in particolare, sono legate a una serie di fattori come i tempi della giustizia civile, le lentezze burocratiche o le storture del sistema fiscale (pagare le tasse implica 15 operazioni all’anno, per un ammontare di 285 ore di lavoro). Gli esempi, in tal senso, purtroppo non mancano: «Basti pensare – dice Vignali – che per ottenere una valutazione di impatto ambientale, in Svizzera, occorrono tre mesi. Da noi, tre anni. E, dato che stiamo tutti ricordando Steve Jobs, vorrei far presente che, da noi, la Apple non sarebbe mai nata. Non è possibile, infatti, aprire un’impresa in un garage». E, a proposito di internet e hi-tech, le bizzarrie delle nostra legislazione in questo settore fanno comprendere l’anomalia italiana: «Le aziende 2.0 potrebbero rivelarsi un’occasione straordinaria perché consentono, potenzialmente a chiunque, di metter su impresa senza costi di avviamento. Sono sufficienti un computer e il proprio cervello. Tuttavia, in Italia, per partire occorrono 10.000 euro di capitale sociale, un mese per costituire l’impresa, i locali a norma, la registrazione delle posizioni Inps e via dicendo. Non abbiamo aziende che fanno app per i tab perché, da noi, secondo le norme vigenti, a ogni app venduta dovrebbe corrispondere una fattura. Abbiamo, infatti, ancora le leggi per la vendita di corrispondenza del Postalmarket!». Una situazione del genere non è venuta a crearsi per caso. «C’è, anzitutto – dice Vignali – un fattore ideologico. La sicurezza sul lavoro è un bene da tutelare; ma le norme per una fonderia e per uno che fa app non possono essere uguali. Vige, inoltre, nei confronti dell’impresa, la cultura del sospetto per cui l’imprenditore è sempre considerato un potenziale truffatore, sfruttatore, evasore e inquinatore».
C’è, infine, una rendita di posizione di tante autorità – burocrati e vari enti dello Stato – che pensano che a ogni semplificazione corrisponda una riduzione del potere». Resta da capire se una ricetta per uscire dall’impasse esista. «Il nocciolo della questione – spiega – non consiste nel dare incentivi, ma nel liberare le imprese dai lacci e lacciuoli che le affliggono. È necessario eliminare tutto quello che non è indispensabile. Lo Statuto delle Imprese va in questa direzione, dal momento che contiene moltissime norme di semplificazione. E semplificare sortirebbe un risultato doppiamente positivo: lo Stato ci guadagnerebbe, perché bisognoso di minor personale (più norme ci sono, più persone occorrono per controllare); e ci guadagnerebbero le imprese, che si troverebbero sgravate di costi che le rendono meno produttive». Va da sé che un sistema dove «si è costretti a investire in un ragioniere per gestire le faccende burocratiche, invece che in un ingegnere o in un creativo, tarpa le ali a tutto il Paese».
(Paolo Nessi)