Efficienza, produttività, crescita, formazione, scuola. Sono le principali stelle polari, fra teoria e pratica, del prossimo governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Chi pensa che sia un neoliberista, dalla fede mercatista e monetarista, resterà deluso leggendo i suoi scritti. D’altronde, come ha notato per primo Stefano Feltri de Il Fatto Quotidiano, una delle culle culturali di Visco è stata in Italia la scuola bolognese de Il Mulino. Non è un mistero, infatti, che da tempo è apprezzato dagli ambienti politici di centrosinistra e che, ultimamente, è entrato in sintonia con il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, seppure nel rispetto dei ruoli diversi: Tremonti l’aveva coinvolto, quando era vicedirettore generale di Bankitalia, come coordinatore tecnico per redigere il piano decennale per la crescita.
Il successore di Mario Draghi? C’è chi lo definisce uno strutturalista, chi un keynesiano liberale e chi un liberalsocialista. Ma al di là delle etichette, che come sempre sintetizzano troppo e male, la figura di Visco ha uno spessore accademico e scientifico di primario livello anche internazionale. E non essendosi esposto in considerazioni politico-culturali – caratteristica tipica dei civil servant che lavorano a Palazzo Koch – le definizioni intellettuali sono spesso improprie. Eppure dagli ultimi scritti di Visco si possono rintracciare aspetti che delineano un profilo per certi versi inedito per la linea tradizionale dell’Istituto di via Nazionale. Nelle sue analisi spesso si sottolinea il ruolo positivo che può avere l’intervento pubblico, non si dà eccessiva enfasi alle privatizzazioni e alle liberalizzazioni (comunque auspicate), né si invocano robusti tagli fiscali per rinvigorire la crescita, mentre si ritiene che ci siano ulteriori spazi per la riduzione, mirata, della spesa pubblica.
Se è nota la sua passione per il ruolo della formazione nella crescita non soltanto civile ma anche economica dei cittadini e di una nazione, in un’analisi uscita alcune settimane fa sulla rivista “Il Mulino” intitolata “Il capitale umano per il XXI secolo” si rintracciano rilievi su come l’industria italiana abbia sfruttato in maniera a volte impropria le innovazioni dei contratti di lavoro: “Gli strumenti di flessibilità via via disegnati tra la metà degli anni Novanta e i primi anni del nuovo secolo – ha scritto l’ex vicedirettore generale della Banca d’Italia e prossimo governatore – hanno riguardato quasi esclusivamente le nuove coorti entrate nel mercato del lavoro; su di esse si è scaricato l’intero onere dell’aggiustamento strutturale reso necessario dall’innovazione tecnologica, dall’apertura dei mercati e dall’impossibilità di ricorrere a ulteriori svalutazioni del cambio”.
È possibile quindi, ha aggiunto Visco, “che la stortura nel sistema degli incentivi derivi dal fatto che abbiamo utilizzato i margini ottenuti con la maggiore flessibilità del mercato del lavoro, e la contestuale riduzione dei salari reali, per garantire la sopravvivenza anche a quelle imprese che non hanno intrapreso il necessario aggiustamento strutturale”. “Le riforme che hanno accresciuto la flessibilità nell’impiego del lavoro – si legge – hanno facilitato l’aumento dell’occupazione e la riduzione della disoccupazione. Ma ciò è avvenuto in parte rilevante con un maggior ricorso ai contratti a termine che hanno alla lunga effetti negativi sulla produttività del lavoro e sulla profittabilità”. Per questo, in Parlamento ha detto che “è prioritario riequilibrare la convenienza relativa nell’utilizzo di contratti a termine e contratti a tempo indeterminato, superando i rischi e le incertezze che scoraggiano le imprese a ricorrere a questi ultimi”.
Il ruolo indispensabile dell’intervento pubblico è stato evocato da Visco anche nell’ultimo numero della rivista della Cisl “Scuola-formazione”, dove il prossimo governatore della Banca d’Italia ha scritto che “una strategia di crescita non può dunque prescindere da una scuola dotata di risorse finanziarie e, soprattutto, dotata essa stessa delle conoscenze e delle competenze pedagogiche necessarie a formare i saperi del 21° secolo”. Dopo la diagnosi, ecco la prognosi, come si rintraccia dalla ricerca di Visco su Il Mulino: “Mentre si cerca di uscire dall’attuale fase recessiva, occorre mettere in atto le iniziative più appropriate sui diversi piani dell’intervento pubblico per accrescere gli incentivi pubblici e privati a bene investire nella scuola e nella nostra formazione permanente”.
“Piani di intervento pubblico”, dunque, secondo Visco. Un’enfasi inusuale, secondo i più attenti osservatori di Bankitalia. Un’enfasi, ad esempio, che non si ritrova negli studi dell’ex responsabile della ricerca economica dell’Istituto di via Nazionale, Salvatore Rossi, adesso segretario generale di Palazzo Koch. Soprattutto dai saggi di Rossi pubblicati da diverse case editrici è chiara l’impronta liberale e liberista dell’ex capo dell’ufficio studi. In Bankitalia c’è ancora chi ricorda come Rossi firmò un appunto per il Direttorio, all’indomani della pubblicazione del saggio di Tremonti, “La paura e la speranza”, che conteneva una serie di rilievi sulle incongruenze teoriche del libro tremontiano, come svelò il quotidiano Il Foglio nel novembre del 2008.
Sarebbe comunque errato pensare che Visco sia critico su un’ulteriore liberalizzazione del mercato e dei contratti di lavoro. Nelle ultime audizioni in Parlamento non c’è stata una particolare sottolineatura sulla flessibilità in uscita, ovvero sulla necessità di modificare la normativa sui licenziamenti, ad esempio. Nel testo consegnato alle Camere il 30 agosto scorso, in cui si analizzava la manovra del governo, si legge che “l’articolo 8 del decreto persegue la finalità condivisibile di rafforzare la contrattazione aziendale e territoriale”. Però, “la contrattazione non può tuttavia sostituirsi a un’adeguata disciplina normativa”. Inoltre, ha rimarcato Visco, occorre “una riforma sistematica degli ammortizzatori sociali” con un “istituto assicurativo contro la disoccupazione” e “uno strumento di sostegno all’occupazione nelle fasi sfavorevoli del ciclo, come l’attuale Cig ordinaria”.
Ciò detto, non mancano comunque nei testi, nelle analisi e negli interventi istituzionali più recenti di Visco auspici affinché l’Italia non receda dalle liberalizzazioni, in particolare dei servizi pubblici locali. Ma rispetto a riferimenti assenti alla necessità di privatizzazioni radicali del patrimonio mobiliare e immobiliare dello Stato, c’è un’enfasi particolare sul ruolo degli investimenti pubblico-privati necessari a dotare l’Italia di infrastrutture indispensabili per la crescita dell’economia. Così come sono ben presenti consigli per riforme strutturali sul fronte della spesa, tra cui quelli della spesa pubblica, a partire dalla previdenza: “Si potrebbe prevedere – ha detto nell’audizione al Senato del 30 agosto – un ulteriore graduale aumento delle quote per l’accesso alla pensione di anzianità. E si potrebbe anticipare l’incremento dell’età di pensionamento per vecchiaia delle lavoratrici del settore privato da 60 a 65 anni”.
La passione per il rigore e le riforme ha indotto Visco a invocare da tempo un ricorso alla spending review (processi sistematici di revisione delle uscite) per poter poi tagliare in maniera mirata la spesa pubblica. Con un occhio particolare all’efficienza: “Per ottimizzare l’allocazione delle risorse è necessario rafforzare l’utilizzo degli indicatori di efficienza delle diverse strutture pubbliche (uffici, scuole, ospedali, tribunali)”, ha ripetuto più volte.
Rigore, riforme e nessun volo pindarico su tagli robusti alla pressione fiscale, viste le condizioni di finanza pubblica dell’Italia, si rintracciano spesso nei suoi scritti sulle entrate tributarie. Certo, è auspicato uno spostamento della tassazione privilegiando il lavoro e le imprese, magari a scapito dell’imposizione sui consumi. Ma ha anche indicato, a fine agosto, che ci sono margini per nuovi incassi tributari: “Va riesaminato il peso del prelievo sulla ricchezza immobiliare”. Secondo Visco, “l’Italia è caratterizzata da un’imposizione sulla proprietà immobiliare relativamente bassa. Sulla base dei dati dell’Ocse, in Italia il prelievo è stato in media pari a circa l’1,5% del Pil l’anno tra il 2000 e il 2008; in Francia gli incassi si sono attestati sul 2% del Pil l’anno, mentre nel Regno Unito e in Spagna hanno rispettivamente superato e quasi raggiunto il 3% del prodotto. L’Italia è l’unico Paese ad aver abolito l’imposta sul possesso dell’abitazione principale”.