Non è l’Europa a chiederci di fare presto e bene per rimettere in modo lo sviluppo dopo quindici anni di crescita zero o rasoterra. Siamo noi stessi a doverlo esigere. Tutti gli italiani. Abbiamo perso la grande occasione offertaci nell’agosto 1992, quando i mercati ci mostravano la necessità di consolidare il debito pubblico prima di entrare nella moneta unica. Ora con uno stock di debito pubblico che supera di gran lunga l’87% del Pil (la stima più recente della “soglia” oltre la quale il debito diventa un forte freno alla crescita), e privi di sovranità monetaria (l’abbiamo trasferita alla Banca centrale europea), toglierci di dosso il macigno è molto più arduo; in effetti, non esistono studi di rilievo che dimostrino come si possa consolidare il debito di uno Stato che appartiene, sotto il profilo della moneta, a un’unione di Stati. La bozza di Decreto sviluppo di circa 140 articoli che circola in questi giorni non prevede nulla in proposito.



Nelle ultime settimane, su ilsussidiario.net sono state delineate varie misure per rimettersi sul sentiero dello sviluppo. Sabato scorso, in un seminario nella sala Aldo Moro della Camera dei Deputati, la discussione del libro di Franco Reviglio “Goodbye Keynes? Le riforme per tornare a crescere”, proprio mentre da Bruxelles e dalla riunione dei giovani industriali a Capri (nonché dallo stesso Quirinale) giungevano inviti a “fare presto”, è stata lo stimolo per un dibattito su questi temi tra economisti di varie scuole di pensiero, oltre che considerati contigui a varie parti dello schieramento politico. Non voglio fare la sintesi di quanto già detto, ma sulla base delle analisi precedenti e del dibattito del 22 ottobre, si possono indicare le quattro mosse per rimetterci a crescere.



La prima deve riguardare il debito pubblico. Pensare di ridurlo alle dimensioni appropriate, con il pareggio di bilancio e una serie di saldi primari attivi, è un’illusione che ci porterebbe alla recessione permanente: nei 150 anni dall’Unità d’Italia, il rapporto tra stock di debito pubblico e il Pil ha superato il 60% (a cui ci siamo impegnati) in ben 111 anni. Tutte le volte che siamo stati costretti a ridurlo (nel Secondo dopoguerra siamo passati dal 120% al 25% nel giro di pochi anni) lo abbiamo fatto o con alti tassi d’inflazione o con forte crescita o con operazioni di finanza straordinaria. Per la prima strada, ci manca la leva essenziale: la sovranità monetaria. Per la seconda ci blocca la bassa produttività multifattoriale. Il varo di un’imposta patrimoniale verrebbe letto dai mercati come il preludio della bancarotta. L’unica via realisticamente percorribile allora è la costituzione di un “fondo taglia-debito”, secondo le linee esposte su queste pagine il 3 ottobre. Ciò vuol dire dare priorità alla riduzione dello stock del debito anche rispetto al raggiungimento del pareggio di bilancio.



La misura è essenziale, e per come delineata, comporta pure un rilancio delle privatizzazioni, ma da sola non è risolutiva. Deve essere accompagnata da liberalizzazioni e delegificazioni reali non da piccoli passi quali le pagelle elettroniche e i biglietti dell’autobus telematici. Le riforme che mordono – dal “big bang” delle liberalizzazioni e delle semplificazioni alla revisione della normativa previdenziale – devono essere fatte tutte simulatamente con un decreto di pochi articoli per mostrare a noi stessi e al resto del mondo che il passo è cambiato e che non siamo più prigionieri di gruppi corporativi che, per la salvaguardia dei loro interessi, hanno bloccato la crescita e danneggiato le nuove generazioni e ancora di più quelle future.

Riusciranno le quattro mosse (riduzione del debito, privatizzazioni, liberalizzazioni e delegificazione, riassetto della previdenza) a rimetterci a crescere? In passato, il rilancio della crescita è sempre stato accompagnato da misure relative al tasso di cambio – oggi non più possibili. La “grande inflazione” pilotata da Einaudi dei primi anni del Secondo dopoguerra venne accompagnata da una forte svalutazione anch’essa gestita da Einaudi. Insieme furono la premessa di un quarto di secolo di crescita perché l’Italia disponeva (lo hanno documentato parallelamente economisti profondamente differenti – e che non conoscevano l’uno i lavori dell’altro – come Kindleberger e Janossy) di una ricca dotazione di capitale umano che si è tradotta in alta produttività del lavoro. Pochi ricordano che negli anni Cinquanta delegazioni di altri paesi europei vennero a studiare il nostro sistema di istruzione e di formazione e che negli anni Sessanta l’Ocse gestì un vasto progetto (il “Progetto regionale Mediterraneo”) per individuare come le lezioni dell’alta produttività del lavoro in Italia potessero essere metabolizzate non solo da Grecia, Spagna e Portogallo, ma anche dalla Francia. Il saggio di Franco Reviglio documenta come, al contrario, da quindici anni la produttività del lavoro sia tra le più basse di quelle riscontrate dai Paesi Ocse.

Le quattro mosse per lo sviluppo possono fornire la cornice per azioni (dirette a promuovere una più alta produttività del lavoro) da parte delle imprese, dei sindacati, delle associazioni e agenzie di promozione sociale. In caso contrario, riduzione dello stock di debito, privatizzazioni, liberalizzazioni, delegificazione e riassetto della previdenza rischiano di incidere meno di quello che potrebbero e di avere costi sociali superiori ai benefici alla collettività. Lo Stato non può fare tutto. Ci deve bastare che fornisca la cornice corretta. Al resto deve pensare ciascuno di noi.