In Occidente, numericamente parlando, la famiglia ha perso la partita. Ha vinto un insieme disorganico di soggetti, nati tutti dalla sua implosione. Hanno vinto i celibi e le nubili, i trentenni più o meno “bamboccioni” che vivono con i genitori, i vedovi e le vedove e le famiglie… senza figli.

L’Istat non consente di alterare un risultato certificato “per tabulas”, con tanto di grafici a torta. La ciliegina, su questa torta, è per gli anziani, che sono in testa e guidano fieramente quel che resta della famiglia. Mettersi insieme quando si è giovani è diventato problematico e svantaggioso per un insieme di motivi che spaziano da quelli educativi e umani fino ad arrivare ad una struttura del lavoro, del welfare state e del sostegno economico che non risultano minimamente calibrati rispetto alle esigenze e necessità di chi ancora vorrebbe mettere su famiglia. In particolare “l’eutanasia” della famiglia  si coglie dal venir meno dei figli. Essi non costituiscono affatto il carattere imprescindibile della famiglia: si può andare lontani, in coppia, senza di loro, aumentando il numero di crociere, di scoperte, di esperienze. In un mondo globalizzato e in movimento, pieno di incertezze e instabilità, questa famiglia indebolita non fa che segnare i confini tra se e gli altri, nella illusione di delineare, proteggere e riempire di senso il suo essere famiglia. E’ una prospettiva senza prospettiva, mitigata solo dalla ripresa delle nascite ascrivibili ai rinforzi migratori.



I meccanismi che stanno alla base del lavoro e del credito, centrati troppo sul criterio del tempo accumulato e della solvibilità e troppo poco sul merito e sulla buona volontà di fare bene, sembrano fatti apposta per tenere fuori dai giochi i giovani in età riproduttiva e con desiderio di famiglia. Partiamo da qui, dalla foto di gruppo della nostra società, e zoomiamo sui vari comparti. Eccoli: meno coppie giovani e più celibi, meno popolazione femminile in età (pienamente) riproduttiva, pochi bambini, indici di vecchiaia in crescita inarrestabile. In queste condizioni si possono fare due profezie:



1. la famiglia è l’istituto che, dopo essere stato selvaggiamente mobbizzato, subirà un colpo ancora più decisivo dall’evolversi della situazione economica.

2. Al tempo stesso viene solo dalla famiglia quella leva che può almeno attenuare o redimere gli effetti di un impatto demografico disastroso. Quindi potrebbe rientrare in gioco, salvare se stessa e quanto resta dell’Italia.

Si possono abbandonare ideologie e ideologismi e cominciare a riflettere seriamente su tutto ciò? O dobbiamo ancora una volta temere un dibattito di anni attorno ai “dico” e ai diritti individuali innalzati al livello del diritto di coppia? Perché anche questo va rilevato: quando si parla di famiglia lo si fa per strade indirette e tortuose, e infatti nella fecondazione assistita il centro è il figlio e la coppia esce di scena, nei pacs il centro è la coppia ma i figli spariscono. La visione d’insieme della famiglia non c’è mai.



Quanto alla profezia numero 1, osserviamo che cosa aveva intenzione di fare il Governo. Un figlio piccolo a carico, due redditi medio bassi, qualche problema di salute, la necessità di usare la macchina. Questa famiglia è stata presa di mira dalla prima versione della manovra economica approvata ad agosto e costretta a contribuire al risanamento dei conti pubblici dello Stato nella misura di 1.400 euro l’anno.

Adesso diamo un nome di fantasia ad un tranquillo signore che invece non viene  toccato dalla manovra: Luigi. Luigi non lavora; vive con qualche milione investito in fondi speculativi. Il taglio delle detrazioni fiscali non lo riguarda perché l’Irpef non la paga e la macchina la prende a noleggio con il conducente. Del resto è spesso in vacanza. In quella stessa prima versione della manovra economica Luigi non avrebbe dovuto contribuire al risanamento dei conti dello Stato.

Questo strabismo governativo ha fatto insorgere più d’uno e gridare allo scandalo. Famiglia Cristiana, per esempio, nel suo numero di metà agosto, ha parlato di “killeraggio” spietato e immotivato. Ma attenzione: a parte le mitigazioni future di queste prime misure annunciate, va compresa una costante che appare “necessaria” al consenso. Il consenso si fa con quel che c’è. Punta al presente e al passato, alla memoria che deve sprigionarsi al momento del voto. Nei seggi non vota il futuro, la speranza, la sostenibilità delle generazioni future. Mentre vota, eccome, l’obesità del tempo presente e dei suoi figuranti.

E’ perfettamente noto da tempo che dal punto di vista economico lo Stato discrimina il matrimonio rispetto alle convivenze. Gli italiani sposati hanno già imparato a evitare accuratamente la comunione dei beni. Tra questi italiani, parola di commercialisti, si sta diffondendo un fenomeno tutto nuovo e allarmante, quello delle finte separazioni: l’assegno di mantenimento del coniuge è detraibile dal reddito imponibile ai fini fiscali. Di questi tempi, il vantaggio va incassato.

Il carico fiscale per la famiglia italiana è straordinario. Se siamo a Ventimiglia, possiamo proseguire per qualche chilometro e passare il confine francese. Scopriremmo che con un reddito (imponibile Irpef) di 30.000 euro, in Francia il carico fiscale annuo è di 348 euro. In Italia, invece, se il nucleo è monoreddito il peso fiscale raggiunge i 5.010 euro (+4.662 rispetto alla Francia). Se bireddito il peso delle tasse raggiunge i 2.842 euro (differenza pari a +2.494).

Alziamo il reddito e portiamolo a quota 55.000 euro: la famiglia francese è sottoposta ad una tassazione di quasi 3.000 euro. In Italia il nucleo monoreddito paga 15.989 euro (+13.000 euro di quella francese), quello bireddito versa all’Erario 10.530 (+7.542 euro della francese).

Già che ci siamo, andiamo ancora più su. Con un reddito di 150.000 euro in Francia viene pagata un’imposta di 25.324 euro. Sulla famiglia italiana monoreddito grava, invece, un peso di 57.670 euro (differenza pari a +32.246) e su quella bireddito 50.331 euro (differenza pari a +25.007). Sono dati della CGIA di Mestre, solido e serio Centro Studi citato dal Governo quando qualche indicatore liscia il pelo ad un provvedimento adottato.

L’articolo 31 della Costituzione è stato di fatto abrogato, con la compiacenza di tutti; ma il punto che è interessante sottolineare non è l’accanimento anti-famigliare quanto piuttosto la gioiosa baldanza con cui ci apprestiamo a festeggiare la condanna a morte dell’intero Paese.

Un solo Paese, l’Egitto, “possiede” tanti giovani quanto  tutti i Paesi dell’Unione Europea messi assieme. Come staremo tra trent’anni? Beh, se conosciamo l’arabo potremo continuare a stare bene, anche in Italia. Le famiglie le faranno loro, un po’ più allargate delle nostre, ma pur sempre famiglie e un Tremonti di turno troverà la formula per calcolare il cumulo dei redditi anche per i matrimoni  pluri-muliebri. Quanto a noi, qualche aggiustamento di dieta (poco cotechino, niente pearà, tanto cous-cous) ci saranno sufficienti. All’entrata di San Zeno ci accoglierà una guida turistica simpaticamente mora e dai tratti semiti evidenti. Siamo tutti fratelli.

Noi andremo a lavorare tardi, dopo i venticinque anni. Metteremo da parte qualche soldo per il matrimonio verso i trenta. Useremo il profilattico fino a trentacinque. Faremo un figlio (complice la cattiva programmazione televisiva) subito dopo. Nel frattempo scriveremo trattati e approveremo dispositivi anti-immigrazione: “Non possiamo accogliere chiunque”. Ma apriremo le porte a chiunque sia in grado di puntellare il nostro sistema: infermieri di colore, camionisti di colore, pasticcerei di colore, baristi di colore (preferibilmente giallo), edili di colore e pittori con colore, rigorosamente di colore.

Se le cose stanno così, siamo certi che nessun problema inquadrabile sotto l’etichetta “famiglia” possa diventare a breve una vera emergenza degna di attenzione, di programmazione, di risorse. Da questo punto di vista, il convegno del 5 ottobre, promossa dalla Banca Popolare, Fondazione Cariverona, Cattolica Assicurazioni, appare una stra-ordinaria anomalia e una coraggiosa contro-tendenza. Tutto quello che si legge e si vede in televisione lascia intendere che in futuro si punteranno le fiches su una scommessa tranquillizzante: “Lasciamo che ciascuno improvvisi la propria famiglia”, quasi che essa possa nascere da un bricolage sociale lasciato alla immaginazione e alla fertile fantasia degli umori e degli amori di ciascuno.

Poi qualcuno ci spiegherà che in pensione non ci potremo andare neanche a 70 anni, che la vita media si è allungata troppo per far restare a carico del sistema sanitario uomini e donne che per trent’anni al mattino si alzano e vanno regolarmente dal medico di base per la quotidiana prescrizione. E poi? Poi basta. Poi sarà la fine. Tra qualche secolo, nei libri di storia, i nostri discendenti  leggeranno che gli italici sono scomparsi, così come noi leggiamo nei libri di storia che i sumeri non ci sono più e nessuno ha mai capito il perché. Perché dalla storia si sparisce così: non con un harakiri spettacolare trasmesso in mondovisione, ma con silenziose e miti estirpazioni delle condizioni di vivibilità e sostenibilità, sottraendo alle palafitte  prima un palo, poi un altro palo e infine un altro palo ancora. Del resto le palafitte sono piene di pali, uno in più o uno in meno il prodotto non cambia. Invece cambia, eccome. E la palafitta sprofonda.

Oggi siamo preoccupati per i cambiamenti nei modi di produrre e nei modi di organizzare il lavoro, sempre meno concentrato e sempre più  de-localizzato, frammentato o addirittura atomizzato. Siamo preoccupati per i cambiamenti nella distribuzione del reddito con processi imponenti di trasferimento della ricchezza dai salari alle rendite e ai profitti. Preoccupati  per i cambiamenti negli assetti nazionali e internazionali che restano privi di regole condivise mentre le differenze delle condizioni di vita si  accentuano. Siamo oggi preoccupati, giustamente, per gli effetti indesiderati di quanto noi stessi abbiamo solertemente contribuito a realizzare. Per esempio per la finanza (che è anche economia) che si mangia l’economia (che è anche finanza).

Passiamo allora alla profezia 2. La famiglia può rientrare in gioco. Ma a precise condizioni: la prima è semplice e consiste nel ridurre la sconvenienza dei figli. La seconda passa dalle donne ed è decisiva: occorre consentire loro di conciliare i figli con la pienezza della vita lavorativa e sociale. La terza riguarda il credito: occorre supportare (e forse anche sopportare) i giovani nel tentativo di uscire dalle famiglie di origine per vivere autonomamente e fondarne di proprie. Sarà pure un problema, ma “credito” viene da “credere” e non si può non credere a chi, avendo tutta la vita davanti, desidera muovere i propri passi nella direzione di una sfida personale impegnativa, longeva, comunitaria. L’ultima condizione è quella più insidiosa: occorre evitare di credere nelle famiglie di domani contribuendo allo sfinimento di quelle di oggi. Detto diversamente, occorre limitare il rischio di povertà delle famiglie con  figli, oggi, perché è oggi  che queste famiglie restano al centro di troppe politiche rapaci e miopi.

A ben vedere tutto ciò è un problema di riforme possibili e necessarie, ma scomode e osteggiate. Toccano alcuni meccanismi ideologici e burocratici del funzionamento della società italiana che sono appannaggio di élites culturali e politiche diversamente orientate. Perciò occorre anche uscire allo scoperto, chiamandole a rendere ragione (se le hanno) di quanto concretamente osteggiano. I valori che stanno alla base delle nostre individuali esistenze non si riprendono e non rifioriscono predicandone la bontà, quanto piuttosto operando scelte e decisioni che rimettano in moto il motore e lo porti ad un accettabile regime di giri.

Si può partire anche da singole porzioni di territorio. Per esempio da Verona. I veronesi sono oggi benestanti, più anziani che in passato, più intraprendenti dei loro genitori, più proprietari, più dislocati. Alcuni veronesi sono leader mondiali nell’innovazione e nella produzione. Marchi e brevetti “made in Verona” percorrono le rotte di tutti i continenti. Siamo conoscitori di mercati e di regole, collocatori efficienti dei nostri beni e dei nostri prodotti in tutto il mondo. Insomma: siamo uno specchio fedele e a tratti virtuoso del trend nazionale sopra descritto. Ma lo sviluppo si misura non solo con la crescita del Pil della città e del suo territorio, che pure mostra qualche scricchiolio.

Esso esclude infatti altri indicatori – salute, istruzione, coesione sociale, pace, capitale umano, sostenibilità, eguaglianza, senso della vita, senso di appartenenza, voglia di futuro, speranza per il domani – necessari per una prospettiva di liberazione, di investimento, di scommessa. Chiamando ad uno sforzo supplementare tutti i soggetti sociali, politici ed economici. Perché tutti dobbiamo dare e fare di più, accettando di scommettere anche su una ulteriore dilatazione della forbice del credito: per quanto riguarda i depositi bancari, infatti, Verona totalizza nel 2010 21,4 miliardi di euro di depositi. Ma i prestiti sono di 30,3 miliardi, ed in particolare lo scorso anno sono aumentati del +26,6% quelli alle famiglie.

Si tratta ora di dare spessore, altezza e profondità ad un benessere che è cresciuto in larghezza e quantità ma ha depauperato il cittadino-uomo e l’ambito principale in cui esso si forma, vive, cresce: la famiglia. Prima che la famiglia ignorata, scansata, rifiutata, presenti il conto.

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