Il primo punto (in ordine di tempo) della strategia di crescita presentata dal Governo è il fondo immobiliare che ha presto acquisito, sulla stampa d’informazione, il nomignolo di “fondo taglia-debito”. In breve, l’obiettivo è “creare ricchezza” dalla manomorta pubblica (stimata in 1.815 miliardi, pari quasi allo stock di debito pubblico). In pratica, la cessione di una parte (peraltro relativamente modesta) del patrimonio immobiliare pubblico (che oggi rende poco o nulla allo Stato e alle pubbliche amministrazioni in generale) e dei diritti per le emissioni inquinanti di CO2. Dalla prima fonte si contano di ricavare 35-40 miliardi; dalla seconda altri 10.



La proposta è ben congegnata ed è stata presentata il 29 settembre al Gotha della finanza italiana da un Comitato di Ministri, in varia misura interessati all’idea. Nei prossimi giorni ci saranno audizioni al Cnel e successivamente un disegno di legge verrà esaminato dal Consiglio dei Ministri e dal Parlamento.

In primo luogo, è pleonastico dire che cercare di valorizzare il patrimonio pubblico è una buona idea. Ci sono ora pure le premesse perché l’idea abbia questa volta modalità di applicazione che la rendano realizzabile entro un lasso di tempo relativamente breve; infatti, rispetto agli impegni europei, ci vorrebbero 40-50 miliardi di euro l’anno (agli attuali d’interesse) per i prossimi vent’anni per fare sì che lo stock di debito pubblico raggiunga il 60% del Pil (o giù di lì) entro il 2032.



Negli ultimi mesi, infatti, sono state presentate idee in questo senso da numerosi economisti. Alcune (ad esempio, quelle di Giuseppe Guardino, di Giorgio La Malfa e dello stesso Paolo Savona) sono riassunte in un articolo di Savona nell’ultimo numero del mensile Formiche. Altre sono state pubblicate su vari numeri del settimanale Milano Finanza da Andrea Monorchio e da Guido Salerno Aletta. Altre ancora sono apparse su riviste specializzate.

In breve, si è diffusa e radicata l’ipotesi che il debito pubblico è ormai un freno tale alla crescita che occorre pensare a un’operazione straordinaria (nel senso etimologico di “fuori dall’ordinario”) per abbatterlo. Tale operazione passa o per un’imposta patrimoniale o per un’operazione di grande ampiezza sul patrimonio dello Stato all’insegna del motto “vendere, vendere, vendere” (nonostante questo non sia forse il momento opportuno per farlo in termini di domanda effettiva). Un confronto tra queste varie proposte si è tenuto alla Fondazione Ugo La Malfa la sera del 29 settembre. Date le dimensioni del problema, il fondo ora delineato dal Governo può essere visto come una prima “tranche” di un’operazione ventennale.



A mio avviso, si dovrebbe essere molto più ambiziosi. Lo è, senza dubbio, lo schema messo a punto da Andrea Monorchio e Guido Salerno Aletta che è anche corredato da una bozza di proposta di legge d’iniziativa popolare. Tale schema fa leva non sul patrimonio pubblico, ma su quello dell’edilizia privata. In breve, i proprietari di casa verrebbero messi di fronte a un’alternativa: o essere soggetti d’imposta patrimoniale oppure far sì che un decimo del loro patrimonio edilizio (stimato in 9.000 miliardi di euro) venga ipotecato dallo Stato avendo in cambio: a) la garanzia dell’esenzione da imposte presenti e future e b) un interesse al tasso di sconto presso la Bce e un ammortamento ventennale. In tal modo – tralascio gli aspetti tecnici, alcuni dei quali molto ingegnosi – lo Stato avrebbe la liquidità per abbattere il debito pubblico e realizzare politiche di crescita.

Un’alternativa del programma prevede obbligazioni a cedola zero (garantite dall’ipoteca sul 10% del valore dell’immobile) che potrebbero essere particolarmente interessanti per chi vuole costituire un capitale per un lascito a figli o congiunti o amici. Sono ambiziose, in vario modo, anche le proposte di La Malfa e Savona (chiare alternative a un’imposta patrimoniale). Non cito proposte da me delineate in passato (all’inizio degli anni Novanta) quando il problema del debito cominciava a essere avvertito in tutta la sua serietà; lo ho pubblicate in italiano e in inglese in varie versioni e non ho ritenuto utile riproporle adesso.

Vale, però, la pena integrarle con la proposta del Governo e con gli schemi Monorchio-Salerno e La Malfa-Savona – la proposta Guarino, invece, è essenzialmente una patrimoniale più o meno in maschera al fine di costituire un “fondo taglia-debito”. Credo occorra partire dalla premessa che se si chiede ai privati di utilizzare parte dei gioielli di famiglia (la propria casa) per liberare l’Italia dalla morsa del debito (Monorchio-Salerno) si debba chiedere allo Stato di fare altrettanto (come nel programma delineato il 29 settembre dal Governo). Ritengo, però, che destinare a tal fine una piccola parte del patrimonio immobiliare pubblico (è difficile che il mercato ne possa assorbire di più) e delle licenze per CO2 sia limitativo. Anche perché tale patrimonio immobiliare pubblico (ad esempio, la case popolari Ater) non sono certo gioielli di famiglia.

Proporrei un fondo con tre “sottostanti” (ossia attività reali e finanziarie a garanzia di nuovi titoli): a) parte del patrimonio immobiliare pubblico (come nella proposta governativa); b) parte del patrimonio immobiliare privato (come nella proposta Monorchio-Salerno) su base volontaria e in cambio di un’esenzione fiscale permanente da eventuali patrimoniali; e c) parte dei veri di gioielli di famiglia (Enel, Eni, Finmeccanica, Poste Italiane, Sace, St-Microelectronics, Terna, Poligrafico, Sogin, Inail). Rai, Ferrovie, Fincantieri e altre imprese da denazionalizzare non verrebbero incluse poiché non sono certo “gioielli di famiglia”, ma fardelli da rimettere in sesto o da liquidare.

Con un tale sottostante in garanzia, il fondo potrebbe emettere titoli a tassi molto bassi (quelli di sconto del Bce) per a) riscattare il debito pubblico e b) finanziare investimenti a lungo termine di interesse collettivo. Il fondo sarebbe un veicolo per denazionalizzare/privatizzare le società /gli enti le cui azioni sarebbero il suo “sottostante”.

Perché l’operazione funzioni, il “sottostante” dovrebbe essere aggregato (con qualche forma di cartolarizzazione – ne esistono molteplici) e non dovrebbe essere quotato in Borsa per un certo numero di anni (al fine di essere una garanzia solida). Potrebbe essere collocato presso fondi pensioni per dare corpo a una efficace ed efficiente previdenza integrativa. Ciò richiederebbe una preventiva riduzione del numero dei fondi pensione operanti in Italia da 700 a una diecina con effettiva portabilità (ossia che gli iscritti possano votare con le gambe e migrare verso quelli meglio gestiti).Un passo che va fatto se non si vuole che la previdenza integrativa dei nostri figli sia una chimera.

Il fondo “taglia-debito” ha comunque un grande merito: porta in pubblico quello che sinora è stato un dibattito segreto tra specialisti.

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