Dopo un vertice europeo chiuso con una fragile intesa di breve periodo (ma con molte perplessità sul lungo termine e dell’eurozona e dell’Unione europea), l’attenzione di coloro che seguono la politica economica internazionale si sposta da Bruxelles a Cannes, dove si riuniscono i Capi di Stato e di Governo del G20. È un appuntamento che ha tutte le parvenze per sembrare importante: poco più di due settimane fa l’Ue (e in particolare l’eurozona, tra cui specialmente Grecia e Italia) sono state accusate di non tirare adeguatamente la carretta dell’economia mondiale, ma anzi di fare danni con i loro debiti sovrani e con riforme di struttura sempre annunciate ma mai realizzate. Oggi, Ue, eurozona e Grecia e Italia si presentano al G20 avendo in bisaccia gli accordi della settimana scorsa. Riusciranno i 20 a Cannes a dare la sferzata di cui ha esigenza l’economia mondiale?



Non facciamoci illusioni, come – al termine di ogni lezione – usava dire, nei lontani anni Sessanta, il mio professore di Economia internazionale, Isaiah Frank, il quale se ne intendeva anche perché era stato non solo un teorico della materia ma sottosegretario di Stato preposto agli affari economici dell’Amministrazione Kennedy. Dalla Croisette, più nota per i festival del cinema che per le riunioni di “grandi” del mondo, uscirà un lungo comunicato (peraltro già scritto e negoziato in bozza , pur se potranno essere fatte modifiche all’ultima ora) denso di auspici, ma privo di sostanza.



Il G20 – ammettiamolo una volta per tutte – è un club di malcapitati che devono far finta di potere orientare i cambiamenti dell’economia mondiale in un contesto in cui sono in corso riassetti strutturali molto profondi di cui pochi (anche nel sodalizio) sembrano avere contezza.

In sintesi, nel 1820 il 43% del Pil mondiale era prodotto (e consumato) da India e Cina. Vigeva un’economia di sussistenza per il 97% della popolazione mondiale; quindi, quanto più popolazione si aveva, tanto più si produceva e si consumava (e qualcosa restava per risparmi e investimenti). Da allora per oltre due secoli, i Paesi che si bagnano sull’Atlantico hanno avuto il monopolio dell’innovazione tecnologica, crescendo a tassi ben maggiori di quelli del resto del mondo. Dagli anni Ottanta, la tecnologia dell’innovazione e della comunicazione ha rotto il monopolio e la distribuzione geografica della produzione mondiale (e quindi dei consumi, dei risparmi e degli investimenti) sta drasticamente cambiando. Non ci sono strumentazioni economiche che consentano di delineare quale sarà il nuovo percorso, quali i tempi e se si tornerà (un giorno) a una situazione analoga a quella del 1820 oppure a qualcosa di intermedio (tra i secoli del “monopolio atlantico” e il pre-1820) oppure ancora a qualcosa di completamente differente. Infatti, a considerazioni e determinanti economiche si accavallano e si sommano considerazioni e determinanti sociali, istituzionali e politiche.



I 20 malcapitati, quindi, sono chiamati a risolvere un sistema di equazioni con un numero vastissimo di incognite di cui nessuno pare conoscere i parametri essenziali. Quindi, le loro pronunce – i comunicati – non possono essere che tanto vaste da tentare di abbracciare qualcosa per poi non abbracciare un bel nulla. Da ciò, inevitabile una crescente frustrazione. “Quanto erano più semplici – non possono non pensare i leader del G20- i G5 o anche i G7 di un tempo, quando bastava una serata in un appartamento al Plaza per riequilibrare quel che allora contava dell’economia mondiale”. È finito per sempre il mondo monopolare in cui gli aggiustamenti erano “esterni” (tramite svalutazioni e rivalutazioni nell’ambito delle regole definite a Bretton Woods) e non è chiaro se è destinato a durare l’attuale situazione basata su aggiustamenti interni e un contesto internazionale in cui l’euro è la seconda moneta principale dopo il dollaro. L’ultimo rapporto del gruppo Bruegel trasnoccia scenari e include anche un’analisi Swot (Strenghts, Weaknesses, Opportunities and Threats) di punti di forza e di debolezza di euro e yuan come seconda moneta internazionale – sempre dopo il dollaro.

L’analisi può essere utile ai “malcapitati della Croisette” non perché possa illuminarli su come pilotare il presente e il futuro dell’economia mondiale, ma perché mostra che la tartaruga europea (e i debiti sovrani di Grecia e Italia) non sono il cuore del problema come indicato (dal Segretario al Tesoro americano, ma anche da esponenti dei Brics) alla sessione dei loro ministri dell’Economia e delle Finanze. Il lento andamento dell’Europa e i debiti di Grecia e Italia sono senza dubbio problemi gravi e seri. Ma in un mondo in cui l’80% delle transazioni internazionali e il 70% di quelle interbancarie sono denominate in dollari, è difficile parlare di ripresa se gli Stati Uniti non trovano modo di sostenere un tasso di crescita maggiore dell’anemico 1,6% l’anno che li contraddistingue dall’inizio del 2011.

Se questo nodo venisse risolto, la carretta dell’economia mondiale, almeno nel breve periodo, andrebbe a ritmo più sostenuto. Ciò non vuole affatto dire che i 20 risolverebbero i problemi più gravi di medio e lungo termine, ma potrebbero riflettere su di essi con meno affanno sul contingente.

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