Giulio Sapelli, grande storico dell’economia e grande economista, quando ascolta alcuni passi della lettera con cui l’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne, ha deciso l’uscita della casa automobilistica italiana da Confindustria, prova disappunto e preoccupazione. Difficile interpretare una mossa così dura, così sorprendente, così in fondo inaspettata: «Ma perché, mi chiedo. L’articolo 8 della finanziaria non lo hanno fatto in fondo per la Fiat? Osservatori di grande prestigio, anche sindacalisti americani hanno quasi tutti concordato su un punto: che quell’articolo era una sorta di “tappeto rosso” per la Fiat. E Marchionne decide di uscire da Confindustria proprio quando Emma Marcegaglia e le Piccole e medie imprese aprono un confronto aperto con il Governo?».
Perché questo fatto la preoccupa tanto?
Facciamo una piccola premessa. Le relazioni industriali nel nostro Paese hanno raggiunto un grado di tecnicalità troppo complicato. C’è una stratificazione di norme, di interpretazioni. Tutta questa legislazione giuslavoristica di certo non aiuta. La disciplina del lavoro è diventata quasi un rompicapo. Ma il dato di fatto che rappresenta questa decisione di Marchionne è una discontinuità in un momento in cui ci vorrebbe una grande coesione, un’unione fattiva, una collaborazione con le istituzioni del Paese. E Confindustria rappresenta un’istituzione.
Per cui?
I motivi che uno può trarre, anche se è difficile stilare sentenze, è che Marchionne – e con lui la Fiat – stia decidendo di abbandonare l’Italia. Si pensa inevitabilmente a un fatto del genere quando si attacca il sistema politico-istituzionale. Sembra che Marchionne cerchi quasi un pretesto. Scrive infatti Marchionne nella sua lettera a Emma Marcegaglia: “Con la firma dell’accordo interconfederale del 21 settembre è iniziato un acceso dibattito che, con prese di posizioni contraddittorie e addirittura con volontà di evitare l’applicazione degli accordi nella prassi quotidiana, ha fortemente ridimensionato le aspettative sull’efficacia dell’articolo 8. Si rischia quindi di snaturare l’impianto previsto dalla nuova legge e limitare fortemente la flessibilità generale”.
Sembra furibondo per questo accordo interconfederale. Oppure cerca un nuovo terreno di scontro per suoi disegni?
Marchionne non può pretendere di avere di fronte i sindacati che vuole o immagina lui. Che cos’è, è seccato perché c’è anche la firma della Cgil? Può dire che in simile accordo gli altri due sindacati sono succubi della Cgli? Questo è un ragionamento che non sta né in cielo, né in terra. Ed è questo che rende inspiegabile il tutto. Alla fine l’Amministratore delegato della Fiat si fa nemici da tutte le parti, cerca lo scontro con tutti, in Italia e anche con lo Uaw americano. Non è possibile una simile concezione delle relazioni industriali. Ha un duro confronto con il sindacato americano e si dimette da Confindustria per l’accordo interconfederale del 21 settembre. Se fossi l’azionista di riferimento della Fiat comincerei a preoccuparmi.
Per quale ragione?
Per la storia stessa della Fiat, per il tipo di relazioni istituzionali che la fabbrica ha sempre seguito, per una sorta di “bon ton” che ha sempre mantenuto con le istituzioni. Io l’ho più volte detto: non condivido le posizioni della Cgil, quelle della Fiom in particolare. Ma non penso che si possa fare il manager conducendo una trattativa solo con i sindacati che ti seguono e non si mettono a contrattare. Questo è stupefacente.
L’impressione è che questo “addio” non tenga conto di una situazione complessiva delle relazioni industriali che contempla anche esempi virtuosi…
Basta guardare ai chimici e ai tessili, dove si arriva sempre a un accordo prima degli altri. E si contempla anche un welfare aziendale che sta continuamente migliorando.
Una volta lei ha definito Marchionne più come un finanziere che un imprenditore…
Credo di non essermi sbagliato. La Fiat in questo momento non va bene. I nuovi modelli non vanno bene sul mercato. E lui dà l’impressione di essere preoccupato soprattutto delle sue azioni, delle stock options che deve ricevere.
(Gianluigi Da Rold)