Giorgio Benvenuto è stato un grande sindacalista, che ha segnato la storia del sindacato in questo Paese, come Luciano Lama, Bruno Trentin, Pierre Carniti, per parlare degli ultimi 40 anni. Dalla Flm (Federazione lavoratori metalmeccanici – il sindacato unico di categoria creato negli anni ‘70) alla segreteria generale della Uil. Dopo essere diventato Senatore, Benvenuto è oggi Presidente della Fondazione Bruno Buozzi, che prende il nome da un grande sindacalista riformista, oltre che martire della lotta di liberazione.
Che idea si è fatto della rottura tra Fiat e Confindustria?
Mi permetto di fare una premessa storica: la Fiat fino agli anni Sessanta andava per conto proprio. Poi aveva dei contatti dialettici con Confindustria. In seguito, con Gianni e Umberto Agnelli, il rapporto non solo è cambiato, ma la Fiat caratterizzava, con la sua presenza, anche la stessa Confindustria. Gianni Agnelli diventò a un certo punto presidente dell’associazione. Credo che ci sia stato uno strappo nel 2000, con la presidenza Damato. Ma per il resto, ritengo che ci sia sempre stata dialettica interna, ma una sintonia di fondo. Ora il rapporto si è interrotto per la personalità di Marchionne innanzitutto, ma anche per un riflesso di una frammentazione che coinvolge tutta la società italiana.
Cosa intende dire?
Quando osservo l’Italia dei nostri giorni, mi sembra di vedere un gigantesco consiglio comunale, dove tutti si dividono e litigano. Marchionne poi è sì un manager che è nato in Italia, ma non è italiano. Ha una cultura delle relazioni industriali del tutto diversa dalla nostra. È un manager internazionale, con una visione americana. Negli Stati Uniti la Confindustria non esiste, le confederazioni sindacali non esistono. Ci sono sindacati di categoria, che fanno durissime battaglie sugli aspetti economici di un contratto, ma che non ragionano in termini politici e tanto meno ideologici. Marchionne pensa che sia Confindustria, sia i sindacati abbiano sempre riferimenti o condizionamenti di tipo politico e da qui è arrivata la sua scelta. Sostanzialmente, l’Amministratore delegato della Fiat è su un’altra lunghezza d’onda rispetto alla nostra Confindustria, ai nostri sindacati, al nostro tipo di visione del mondo.
Ma non le pare che con questa mossa improvvisa, anche se in parte annunciata da tempo, Marchionne (e quindi la Fiat) dia una specie di addio all’Italia?
Non è certo azzardato dirlo. Però l’addio non è dimostrato. Io spero che Marchionne abbia fatto una mossa tattica, non strategica. In altre parole, per scrollarsi di dosso tutto il peso della complicata situazione italiana, che riguarda anche Confindustria e sindacati, ha colto il pretesto della debole leadership di Confindustria in questo momento e ha preso la decisione. Lui pensa di muoversi indipendentemente e non delega a nessuno nelle decisioni. Certo, provoca una discontinuità rispetto alla Fiat degli Agnelli. Basta ricordare la stima che Agnelli aveva di Luciano Lama. Ma anche una discontinuità più recente. In fondo la Marcegaglia è stata portata anche da Luca Cordero di Montezemolo, un uomo della “famiglia Fiat”.
Quali effetti può comportare una decisione del genere?
Effetti certamente negativi. In questo momento il Paese è davanti a scelte importanti e tutt’altro che facili. Quindi ha bisogno di coesione. Alla fine, con questa rottura Marchionne aumenta lo stato di frammentazione del Paese. Lo scenario che viviamo è interpretato da persone che sembrano voler dimostrare di esistere solo perché si dividono da altri. Sembra di assistere a un tutto contro tutti, sindacati compresi. Un tempo noi rivendicavamo diritti. Oggi bisogna trovare degli accordi su degli interessi e il problema diventa complicatissimo. Quando in una trattativa si può fare un passo avanti sono tutti d’accordo, quando occorre, invece, fare un passo indietro si scatenano infinite divisioni.
Non le pare che anche Confindustria e sindacati abbiano le loro responsabilità e che debbano imboccare la strada di un rinnovamento?
La Confindustria è diventata una specie di “pachiderma” e deve affrontare necessariamente un cambiamento. Anche i sindacati devono rivedere alcune cose. Il problema è la validità della loro rappresentanza oggi. A un primo sguardo si comprende che così come la rappresentanza politica è in crisi, anche la capacità di rappresentanza di Confindustria e dei sindacati è problematica. Anche se va precisato che in Italia c’è sempre un alto livello di sindacalizzazione rispetto ad altri paesi. Comunque è il livello di divisione interna che mi spaventa: tra Confederazioni, tra lavoratori del Nord e del Sud, tra le categorie, tra il settore pubblico e il privato, tra vecchi e giovani.
Sta descrivendo una situazione allarmante.
La situazione è grave. Personalmente non sono disperato, perché credo di conoscere questo Paese e so che quando tocca quasi il fondo ha un’incredibile forza di risalire, di riemergere da uno stato di confusione e di concitazione. Certamente occorre, però, risolvere alcuni problemi, come quello di ricreare una fiducia tra quelli che devono rappresentare e i rappresentati. Al momento questa non si vede più a quasi tutti i livelli. Occorre parlare continuamente con le persone. Non ci si può limitare a pareri approssimativi, a qualche elaborazione.
L’impressione che si coglie è anche quella di un Paese in attesa. Non le sembra?
Questo è vero. Ma a questa attesa io vedo unita una certa impazienza. Impossibile non comprendere la gravità della crisi economica e le conseguenze che può portare.
In un certo senso, dopo aver fatto la sua mossa, Marchionne potrebbe provocare una riforma complessiva della rappresentanza nelle relazioni industriali.
Marchionne dice solo che “il re è nudo”. Si ferma lì e aspetta. Nel 1968, ad esempio, Agnelli e Pirelli fecero un manifesto per una riorganizzazione, una riforma di Confindustria. Altri manifesti di nuova impostazione vennero fatti anche dopo.
Non le pare che dovrebbero essere anche riviste le norme giuslavoristiche che soffocano letteralmente le relazioni industriali? L’impressione è che ci sia un apparato normativo abnorme.
Ho parlato con un operaio che mi ha sintetizzato perfettamente questa cosa: ci si accorge di una mosca e non vedi passare un elefante in questo labirinto di norme. Io mi riferisco sempre a una vecchia massima romana: un Paese con tante leggi è un Paese incivile. Lo vedono tutti che siamo in una giungla normativa dove non si comprende più nulla. In più c’è una discrezionalità in questo campo che alimenta la confusione e in alcuni casi anche la corruzione.
(Gianluigi Da Rold)