È opinione comune che quello greco sia un problema serissimo, il fallimento della Grecia trascinerebbe con sé l’euro, e il fallimento dell’euro varrebbe un’ecatombe dei popoli europei. Non so esattamente come la gente si figuri questo immane disastro della distruzione dell’euro – i termini usati sono evocativi, ma lungi da una precisa capacità descrittiva -, ma sinceramente io ci vedo solo molta retorica volta a veicolare il consenso.



Qualche riflessione “storicista”. A sentire l’informazione ufficiale, è un anno e mezzo che la Grecia “sta fallendo” e in tutto questo tempo ogni settimana qualcuno urla che “il tempo è finito”; è veramente lungo a finire, ‘sto tempo! Dovremmo considerare poi che da metà ‘800 la Grecia ha più volte ristrutturato il proprio debito (non era quindi in grado di pagarlo, come oggi) e ha registrato almeno otto default conclamati; questo lungo “fallendo” appare allora un episodio tra i tanti che l’hanno preceduto e che in fondo non avevano visto sparire la dracma – qual è allora il pericolo per l’euro? Intanto, negli Usa, tra il 1980 e il 2002, si sono avuti oltre 2.300 fallimenti di aree urbane (solo perché gli Stati finora hanno potuto trasferire le perdite sul bilancio federale) per 33 miliardi di dollari; inoltre tra il 1975 e il 1978 sono fallite New York e Cleveland… e non mi pare che tutto questo abbia distrutto il dollaro, che resta moneta comune per più enti fiscali federati.



Pensate ora al caso teorico di uno Stato che usa come moneta l’oro: se lo Stato fallisce (non riesce a pagare il proprio debito), allora l’oro diventa “meno oro”? Direi proprio di no, l’oro è oro, e resta perfettamente valido come moneta per gli altri paesi che lo usano. Ne discende la seguente riflessione: una moneta esogena (cioè dalla dinamica dell’offerta indipendente da quel che accade agli enti fiscali) ha una propria esistenza basata sul suo status di legal tender (cioè il corso legale imposto dal monopolio statale, come puntualizza Hayek), sui network effect (cioè i vantaggi, indicati da Friedman, dell’esser già diffusa e accettata) e dal suo valore reale definito dalla quantità di merci e servizi cui dà accesso.



Se l’euro fosse una moneta emessa da un ente terzo e indipendente (quindi esogena), il fallimento di un suo utilizzatore comporterebbe solo perdite finanziarie per i relativi creditori, logica sfiducia verso il fallito e probabilmente temporanea contrazione dell’attività economica. L’euro come moneta ne uscirebbe praticamente illeso, perché già legal tender in un’area ben più vasta e importante e quindi “coperto” da ben vasta produzione reale (quella della Eurozona e anche dell’estero, nei termini in cui la produzione europea viene richiesta). Lo stesso in caso di fallimento italiano. Tra l’altro Portogallo e Irlanda sono già falliti, non si rivolgono al mercato ma campano sulla finanza artificiale di soccorso, e con ‘sto fardello l’euro era arrivato a 1,46 sul dollaro. Il problema “fallimento” non è quindi in via naturale un problema monetario.

Fatto è che l’Eurozona non è quanto appena descritto: la Bce è l’agente monetario di un direttorio politico (dettagli qui e qui) in cui partecipano 17 paesi, con una politica monetaria non monetariamente e teutonicamente orientata al controllo della crescita dell’offerta di moneta in veste esogena, né puramente mirata a un fisso obiettivo di potere d’acquisto coordinandosi con la produzione, bensì usata come strumento per raggiungere scopi politici. Bagus illustra chiaramente la questione: la politica (o sua parte maggioritaria) vuole un super-Stato europeo, e manovra l’euro per “comprare” – via salvataggi di Stati e banche – il relativo consenso, né più né meno.

L’euro come strumento politico allora segue le sorti dell’ente politico che lo gestisce; la crisi del debito combattuta con emissioni di moneta fa scaricare il costo – localizzato in origine solo su alcuni creditori – su tutti gli utilizzatori della moneta, diluendo nella maggior offerta di euro una stessa produzione reale. Il singolo euro così vale meno perché compra meno, rappresenta una frazione minore dell’esistente ricchezza reale. L’attivismo politico non fa altro che forzare le risorse reali verso fini politici meno produttivi (tenere in piedi un fallito ha il costo-opportunità di non potenziare soggetti che creano ricchezza), per cui alla lunga il singolo euro rappresenterà una frazione sempre più piccola (a causa dell’emissione di nuova moneta) di una torta di produzione reale anch’essa sempre più piccola o dalla ben misera crescita. È questo meccanismo che svilisce la moneta, facendole rischiare di venir sempre meno richiesta fuori dall’Eurozona, ma pure all’interno! Questo è il vero fallimento “dell’euro” che si può temere.

Un fallimento dell’euro è nelle carte nei soli termini in cui la politica piega il bene economico “moneta” a semplice strumento politico; il suo “valore” viene così forzato da logiche non economiche, rendendo l’euro una “moneta cattiva” che, come spiega North, può spiazzare “monete buone” solo finché esiste un controllo statale sul suo prezzo. Sul libero mercato dei cambi, l’euro ne verrebbe distrutto; dentro l’Europa le persone potrebbero usare tra loro monete diverse (salvo sanzioni) e questo sarebbe il vero “fallimento dell’euro”. Tutto il resto è solo retorica.

Se fallisce un’azienda in Europa, non fallisce l’euro; se fallisce uno Stato come Grecia o Portogallo, parimenti non fallisce l’euro. La moneta di per sé vive di vita propria, deve avere però una congruenza con le dimensioni della produzione reale con cui – nel nostro mondo, in forza di legge – può essere scambiata; così come i privati fanno fallire gli insolventi, recuperano il possibile, e cercano impieghi più produttivi – e in tal modo nel tempo mantengono in crescita l’economia – così uno Stato è un erogatore di servizi che se insolvente può esser lasciato fallire, in modo che i creditori ottengano indietro quanto possibile e possano accedere a progetti più remunerativi (e altri organizzino nuove più efficienti forniture dei servizi persi).

Al massimo siano i creditori a decidere se è più remunerativo ristrutturare il debito invece che cercare impieghi alternativi. In ogni caso questo ha a che vedere con la destinazione e distribuzione della ricchezza reale veicolata dallo strumento monetario, ma non con l’esistenza della moneta in sé.

Il gioco retorico della politica sta qui (e molti purtroppo ci sono caduti): far credere che occorre salvare la Grecia per salvare l’euro. L’euro in realtà sarebbe paradossalmente più forte se la Grecia fosse lasciata fallire, perché avrebbe testimoniato che un problema politico non è in grado di distorcerne l’ammontare in circolazione a suo piacimento, e che il riferimento per il valore della moneta è solo la capacità dell’economia (o parte di essa, come finora è valso per la Germania) di produrre ricchezza riconosciuta all’estero, per cui il costo del fallimento di uno tra gli enti fiscali che adottano la moneta avrebbe lo stesso transitorio effetto degli storici fallimenti di New York e Cleveland. Ma la politica mette in mezzo l’euro, perché gran parte degli europei (greci in primis) sanno bene che senza l’euro non sarebbero neppur temporaneamente usciti da certe trappole di crescita e inflazione, e questo per poter giustificare interventi a salvataggio del fine politico – pro domo sua – di un super-Stato europeo.

È proprio la politica in realtà che, per perseguire il proprio politico fine, crea i presupposti – il legame moneta-Stato – per il trascinamento nel fallimento di un ente fiscale sostanzialmente marginale anche la moneta unica. La politica ha un primo problema (consenso minacciato dal fallimento greco), crea un secondo problema (minaccia sull’euro) per risolvere il primo, e poi piange il primo problema dichiarando che dalla soluzione di questo discende la soluzione del secondo, quando in realtà i nessi causali sono invertiti e permessi solo dalla presenza stessa della politica. Eliminare l’interferenza politica, e far prevalere il principio di responsabilità del debito del singolo, risolverebbe subito i pericoli per l’euro.

Cadere in questo “equivoco” equivale a schierarsi con una fazione politica in base a una falsa benché suggestiva rappresentazione della realtà.

 

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