«Una nuova crisi bancaria in Eurolandia? In realtà quella scoppiata nel 2007 non è mai finita». Per Antonio Quaglio, caporedattore de Il Sole 24 Ore e responsabile di Plus24, gli allarmi che in questi giorni provengono dall’Europa centrale non sono sorprendenti: «Non dimentichiamo che il più clamoroso “buco” lasciato dal crac dei mercati nell’Eurozona si è aperto in Société Générale: i cinque miliardi di euro del caso Kerviel. E non più tardi di un mese fa Ubs ha rivelato una perdita straordinaria di due miliardi: al di là della motivazione ufficiale (l’azzardo o forse la frode di un giovane trader) è giunta la conferma che i bilanci delle grandi banche fortemente proiettate sui mercati globali – e le big francesi lo sono al pari di quelle tedesche – sono ancora molto malati. Questa situazione, tra l’altro, continua a condizionare pesantemente la fiducia delle economie, frenando la ripresa e agendo a spirale sulla sostenibilità dei debiti sovrani e sui trend delle Borse».
Qual è il virus delle banche francesi?
Hanno nei loro attivi forti quantitativi di titoli sovrani – del loro Paese, e di paesi dell’Europa periferica come Grecia, Spagna e Italia -, ma anche vecchie esposizioni in titoli strutturati. Tutti asset che sono diventati illiquidi – o lo restano – o che sono liquidabili solo a prezzo di forti perdite. D’altro canto è in parte tornato il “grande freddo” dell’autunno 2008 sul mercato interbancario: le banche non si fidano più le une delle altre ed è sempre difficile ottenere credito anche per le grandi istituzioni, sia in euro che in dollari. La stessa Bce ha annunciato ieri di essere pronta a offrire liquidità per un anno (“a rubinetto”): di fatto, Francoforte è diventata a tutti gli effetti “banca centrale”, poiché è là che molti istituti preferiscono detenere la loro liquidità in deposito. D’altro canto le banche in crisi di liquidità hanno sempre meno titoli in teoria accettabili dalla Bce come garanzia.
E il caso Dexia?
La banca franco-belga era stata una delle prime a cadere nel dopo-Lehman ed era stata ricapitalizzata per via pubblica. Era un istituto specializzato nel credito immobiliare e infrastrutturale ed è stata investita in pieno dallo scoppio della bolla dei derivati generati dal real estate. Non è mai guarita e – probabilmente – è rimasta vittima anche dell’incertezza di regolatori e mercati a tagliare in modo netto con il credito facile all’immobiliare riversato sui mercati per alimentare la speculazione. Come ha notato su Il Sole 24 Ore Donato Masciandaro, il fallimento pilotato di Dexia non è in fondo una cattiva notizia: la creazione di una bad bank, cioè la liquidazione di attivi e passivi, segnala la volontà espressa di governi e regolatori di cancellare le peggiori “banche zombie”, senza più sostenerle con la costosa droga di capitali pubblici e liquidità da parte delle banche centrali. Andava fatto subito: purtroppo negli Usa il default di Lehman è stato traumatico, gestito in chiave di regolamento di conti tra big di Wall Steet, non di interesse pubblico. In Europa, invece, la Germania per prima ha salvato tutto il salvabile. A proposito: la Francia salva Dexia facendo intervenire la sua Cassa depositi e prestiti e nessuno protesta, anzi.
Angela Merkel – facendo seguito all’appello del nuovo direttore generale del Fmi, Christine Lagarde – ha assicurato che il sistema bancario europeo sarà ricapitalizzato.
Lo impone ancora la logica del “too big too fail”. L’Europa non può permettersi il fallimento (o un riassetto radicale) di una Deutsche bank o di una Bnp, perché è impegnata in una triplice sfida: risanare il sistema bancario-finanziario; rilanciare il Pil; far leva sulla crisi greca per dare un assetto “2.0” all’Eurozona. Di settimana in settimana l’emergenza cambia a rotazione: in agosto il malato d’Europa era diventato l’Italia per bassa crescita e alto debito sovrano attaccato dalla speculazione; poi il problema è ridiventato la Grecia troppo inadempiente e la Germania troppo severa; ora i fari si sono spostati sulla Francia, con i conti economici e di finanza pubblica abbastanza in ordine, ma con un sistema bancario sostanzialmente più fragile di quello italiano, che pure è stato violentemente attaccato sui mercati, dalle agenzie di rating e in Borsa. A proposito: anche il Belgio scricchiola, è un Paese senza governo da più di un anno e con seri rischi di secessione. E non è che la moralità pubblica e privata del Paese più oscuramente interessato da scandali a sfondo pedofilo sia così più spendibile di quella italiana. Eppure là non è scattata la reazione mediatica a catena che dalle polemiche sul premier conduce fino al declassamento del rating motivato dalla “debole azione di governo”. Ma questo è un altro discorso.
La soluzione sta nei grandi fondi Ue salva-stati e salva-banche?
Sono convinto di sì. E si tratta di momenti politici nel senso più proprio del termine: da una parte, governi ed elettorati di un’Europa ancora “in progress” alzano l’asticella della responsabilità collettiva sui bilanci pubblici senza deficit e con debito controllato (quella che la Grecia ha clamorosamente tradito, con l’aiuto di alcune grandi investment bank). Dall’altra – a lato di misure più simboliche come la Tobin tax – avviano un’azione di riequilibrio nei rapporti tra “governement” e mercati, tra interessi pubblici (moneta e credito lo sono) e legittima azione degli “imprenditori della finanza” e dei loro clienti risparmiatori.
E le banche italiane?
Continuano a reggere, senza aiuti pubblici e nonostante la speculazione assegni loro un valore inferiore a quello racchiuso negli stati patrimoniali e nelle prospettive di conti economici. È ovvio che guadagneranno di meno nei prossimi anni e dovranno accumulare nuovo capitale, distribuendo tendenzialmente meno dividendi. D’altronde, commetterebbero un errore se – per puntellare gli utili – si rivolgessero ad attività di finanza globale più redditizia ma più rischiosa, facendo mancare il credito alle imprese, anche se questo può essere nell’immediato meno profittevole.
L’euro intanto si sta deprezzando….
Si, ma non è un male in sé, anzi. Gli analisti stimano in questi giorni che il valore “fair” del cambio con il dollaro – sulla base dei fondamentali macroeconomici – sia attorno a 1,25. L’export europeo – e italiano – potranno competere in condizioni meno penalizzate dalla guerra valutaria non solo verso gli Usa, dove la Fed “inflazionista” sta aiutando Obama nell’anno elettorale, ma anche e soprattutto verso la Cina, che ha finora investito le sue riserve valutarie nell’Eurozona “rigorista” per almeno tre ragioni: minor rischio di cambio; difesa concorrenziale; assunzione di potere geopolitico attraverso la sottoscrizione di debiti sovrani.