Quale filo comune lega la politica italiana e quella slovacca? Domanda difficile, buona per il gioco delle associazioni. Qualcuno potrebbe evocare la presenza dell’Enel nel nucleare di Bratislava che tanto fa arrabbiare l’Austria. Un altro concorrente, più fantasioso, potrebbe ricordare Silvio Pellico, che dalla sua prigionia in terra morava riuscì a estrarre il best-seller della pubblicistica politica italiana: “Le mie prigioni”. E, a giudicare dall’immobilismo in cui si è imprigionata la capacità di decidere e di operare dell’esecutivo, l’immagine sembra calzare di più. Ma il collegamento trova un appiglio più convincente nella cronaca comunitaria.



L’Unione europea, infatti, ha dovuto far slittare il vertice decisivo per la concessione dei famosi 8 miliardi di aiuti alla Grecia perché manca la ratifica della Slovacchia. Il motivo? Libertà e Solidarietà, partito che conta il 12% sui 4 milioni di elettori della repubblica nata dalla scissione con la Repubblica Ceca, ha imposto al Parlamento di affrontare la questione tra il 14 e il 22 ottobre. Una richiesta di rinvio politico, perché i liberali slovacchi sono favorevoli alla libera cicolazione della Cannabis, assai meno alla libera unione dell’Europa.



E così, per colpa del veto di una forza politica che vanta più o meno 400 mila voti, le Borse di tutto il mondo hanno vacillato per più giorni mentre scricchiolavano i bilanci delle banche, gonfi di titoli sovrani a rischio: un buon esempio di crisi del meccanismo della democrazia applicato all’Europa, spesso accusata di essere il frutto di scelte “fredde” e tecnocratiche che sfuggono al “controllo del popolo”.

Frasi del genere si leggono in più posti. Nei bollettini della Chiesa greca di rito ortodosso, che nelle passate settimane ha avuto parole di fuoco contro le pretese della trojka inviata da Bruxelles: come si permettono questi signori di chiedere ai greci, in un Paese dove non esiste un catasto, di pagare le tasse? O di farci i conti in tasca. La protesta, forse, oggi è meno vibrante: è stato chiarito che la Chiesa, che ha pure un consigliere nel board della Banca centrale di Atene, non pagherà la patrimoniale. Ma senza andar troppo lontano, ragionamenti analoghi hanno radici e creano frutti (e guai) anche dalle nostre parti.



Ieri, in quel di Berlino, si è tenuto un Direttivo storico della Banca centrale europea, l’ultimo guidato da Jean-Claude Trichet, che per otto anni ha diretto la banca centrale di Francoforte. Il prossimo, si sa, avrà per protagonista Mario Draghi che si insedierà all’Eurotower dopo il G-20 cui consegnerà l’esito dei lavori del Financial stability forum. Quel giorno l’attuale governaotre di Banca d’Italia lascerà vuota la sua poltrona.

Non si sa ancora se, per l’occasione, Fabrizio Saccomanni che siede dietro di lui a Francoforte passerà in prima fila. Oppure se arriverà qualcun altro. Magari Vittorio Grilli, civil servant di alto livello degradato a “milanese” da Umberto Bossi che dichiara di sostenere questa candidatura per ragioni geografiche e non per giocare la sua partita al mercato di Palazzo Chigi in supporto a Giulio Tremonti. Tutto si giocherà nell’ultima mano, come a tressette. Con buona pace dei banchieri e dell’opinione pubblica: se l’Europa deve aspettare i buontemponi slovacchi, perché la Lega (che in proprozione, in Italia raccoglie ancor meno voti) deve affrettarsi?

I motivi, per la verità, ci sarebbero: come ha sottolineato Moody’s, il problema più urgente dell’Italia non è lo stato della sua economia (discreto, dati i tempi) o la capacità di reazione della finanza pubblica (l’unico Paese in avanzo primario del G-20), bensì la credibilità della classe di governo. Meglio la Spagna, come ha ricordato Giulio Tremonti. Forse perché Madrid ha scelto la strada delle elezioni (ma l’opposizione lì è pronta a governare, con un governo preciso e i nomi dei ministri-chiave già noti). Forse perché a Madrid non passa per la testa a nessuno di giocare con la credibilità del Paese.

Certo, non è solo questione di etichetta o di sgarbi personali. In una situazione ad alto rischio, in cui i governi si accingono a dare il via a salvataggi bancari a catena, il ruolo di coordinamento tra la Bce (unico governo sovranazionale possibile in questa materia) e le autorità politiche e bancarie nazionali assume un peso cruciale. In un certo senso, questo aumenta il potenziale potere politico di Draghi: un governatore in sintonia con lui a Roma favorirebbe una sorta di governo europeo della congiuntura italiana, con ricadute sgradite sia a destra che a sinistra (come verrà accolta la richiesta di più efficienza in sanità, istruzione e giustizia?).

L’alternativa più gradita a Tremonti e a Bossi è un governatore italiano che permetta al Governo di mettersi di traverso al governo dei banchieri. Il che, per un Paese come il nostro, può avere conseguenze spiacevoli: è vero che siamo in grado di far fronte al nostro debito senza farne di nuovi. Ma come li finanziamo gli investimenti senza recuperare la fiducia degli investitori internazionali?

Un’ardua domanda che Bossi e Tremonti potrebbero condividere con i politici slovacchi.