Nell’agenda del prossimo governo Monti ci sarà con tutta probabilità la riforma delle pensioni e una patrimoniale. Eppure, negli ultimi due anni, leggendo gli interventi scritti del Presidente dell’Università Bocconi di Milano, non erano consigliati interventi sulla previdenza e nuove imposte. Insomma, il Professore che invocava la crescita oltre il rigore, si appresta a perseverare nel rigore. Ma che cosa pensa l’economista ed ex Commissario europeo? Qual è il suo profilo intellettuale? E quali sono secondo il presidente della Bocconi le riforme necessarie all’Italia? Ecco un bignami del Monti-pensiero scorrendo gli ultimi due anni dei suoi scritti.



La bussola teorica: l’economia sociale di mercato

“Sono un convinto sostenitore di un’economia sociale di mercato altamente competitiva, quale è voluta dal Trattato di Lisbona, sarei un po’ preoccupato da un mercato privo, da un lato, di serie regole e di efficaci autorità di enforcement; dall’altro esposto a una più o meno esplicita superiorità della politica: terreno ideale, temo, per abusi privati, abusi pubblici e loro varie combinazioni”.



I giudizi sulla moneta facile

“Se anche si ammette che in qualche misura i salvataggi (bancari negli Stati Uniti, ndr) fossero inevitabili, non si possono non valutare negativamente le politiche che vi hanno condotto: l’espansione monetaria esuberante dell’era di Alan Greenspan, la disattenzione agli squilibri di finanza pubblica, l’assetto obsoleto delle autorità di vigilanza, le connivenze tra politica e finanza che hanno reso intoccabile l’esplosivo sistema delle garanzie pubbliche agli istituti di finanziamento immobiliare”.

Un elogio non ideologico degli Usa

“Se la cattiva governance dell’economia americana ha recato un grave vulnus all’immagine dell’economia di mercato, non dobbiamo però dimenticare che gli Stati Uniti hanno un grande punto di forza nella flessibilità ed efficienza dei mercati dei prodotti e del lavoro, oltre che nella capacità di ricerca e innovazione”.



Un po’ di keynesismo non guasta

“In America e in Europa, le politiche con le quali i governi nazionali cercano di combattere la crisi rischiano di essere poco efficaci, di condurre alla disintegrazione economica, di conservare artificialmente il vecchio, di penalizzare i giovani. Si proclama il ritorno a Keynes, ma si esita a spingere in misura adeguata la domanda nell’unica fase degli ultimi sessant’anni in cui ciò sarebbe veramente necessario. Si preferisce sostenere l’offerta, bloccando così il processo schumpeteriano della ‘distruzione creatrice’ con sussidi a settori e imprese che sono in difficoltà anche perché non si sono ristrutturati a sufficienza”.

L’afflato europeista

“L’Unione europea non potrà essere indenne dalle tendenze recessive generate dalla crisi finanziaria nata in America. Ma ha costruito nel tempo una governance dell’economia più moderna e più solida. La politica della Banca centrale europea è generalmente giudicata migliore di quella del Federal Reserve System. Nell’esercizio dei suoi poteri a presidio delle regole di mercato la Commissione europea non è ‘catturata’ dai poteri economico- finanziari come è avvenuto spesso negli Stati Uniti: garanzie come quelle dimostratesi perniciose a Washington esistevano in Germania, ma Bruxelles le ha eliminate, i salvataggi non sono impossibili ma devono avvenire rispettando severe condizioni e con trasparenza. Anche in Europa, tuttavia, la nuova stagione porterà a tensioni e ripensamenti”.

 

L’ispirazione liberale

“Nell’Italia del dopoguerra, la prevalenza della cultura cattolica e di quella marxista, la scarsa presa della cultura liberale avevano fatto sì che il modello dell’economia di mercato, con regole adeguate, si affermasse solo tra gli anni ‘80 e ‘90. Affermazione che avvenne non per convinzione endogena, come era accaduto 30 anni prima in Germania, ma come evoluzione resa necessaria dalla crescente concorrenza internazionale e soprattutto dall’avvento dell’unione economica e monetaria europea. Il colpo ora inferto al prestigio dell’economia di mercato proprio dagli Stati Uniti, specie se fosse seguìto da un’inversione di marcia della globalizzazione e da un indebolimento del quadro istituzionale europeo, ridarebbe fiato insperato alle molte voci – di sinistra, di centro e di destra – che in Italia avevano dovuto inchinarsi alle ragioni del mercato per necessità”.

 

L’agenda ideale per l’Italia

“Meno barriere all’entrata, meno privilegi e rendite per gli inclusi, più possibilità di ingresso per gli esclusi e per i giovani, più spazio al merito e alla concorrenza: questi gli ingredienti di un’economia più competitiva, di una maggiore crescita, di una società più aperta, più inclusiva, più equa”.

 

I punti di forza dell’Italia

“È vero che l’economia italiana – rispetto a quella britannica, irlandese, spagnola o americana – è meno sbilanciata verso i due settori (finanziario e immobiliare) dai quali si è scatenata la crisi; che le famiglie italiane hanno risparmi elevati e indebitamenti modesti; che la nostra industria manifatturiera, in alcuni settori, è ancora un punto di forza. Ma rimane il fatto che l’Italia, prima della crisi, era uno dei paesi ‘avanzati’ in corso di ‘arretramento’, con differenziali negativi in termini di competitività e di crescita. La crisi è come un’orribile marea che copre e offusca tutto. Il suo effetto immediato è stato sì, per noi, meno dirompente che per altri. Ma non dobbiamo credere che, una volta ritiratasi la marea, il nostro sistema produttivo emerga più competitivo di prima”.

Meriti e demeriti del governo Pdl-Lega

“La politica economica italiana, sotto la regia del ministro Tremonti, ha avuto il grande merito di permettere all’Italia di attraversare la crisi finanziaria con danni molto inferiori a quelli di altri paesi, pur considerati meno fragili. D’altra parte, i risultati insoddisfacenti dell’economia reale sono anch’essi attribuibili, in parte, a carenze della politica economica. Nel decennio considerato sono state fatte alcune riforme strutturali, ma evidentemente non sufficienti. Dall’inizio della crisi, inoltre, il governo ha optato per una linea di grande cautela finanziaria (limitati interventi anticiclici) e politica (minore priorità alle riforme). Era stato suggerito di effettuare qualche maggiore intervento di sostegno, associato però a un’accelerazione delle riforme per mostrare che l’Italia non intendeva certo tornare alla leggerezza finanziaria. È difficile dire quale strategia sarebbe stata la migliore. Certo, la linea seguita ha valorizzato – se così si può dire – la performance del ministro delle Finanze più che quella del ministro dell’Economia. Ciò accresce i compiti e le responsabilità del ministro dello Sviluppo. Con una punta di paradosso, c’è da chiedersi se la situazione attuale – con il presidente del Consiglio che è anche ministro dello Sviluppo – non sia quella ottimale. Purché, naturalmente, ciò avvenga a titolo definitivo e non più ad interim”.

 

L’auspicata riforma del lavoro

“Un esempio di riforma strutturale utile per non penalizzare i giovani nel mercato del lavoro è quella proposta dal senatore Pietro Ichino. Essa mira a superare la divisione tra lavoratori anziani di fatto stabili e i giovani che invece, quando riescono ad avere un’occupazione, sono in prevalenza precari. Un progetto concreto per introdurre in Italia quella flexsecurity che ha consentito ai paesi nordici di conciliare alta competitività ed equità. L’idea di Ichino sta facendo strada tra i sindacati. La presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, la appoggia. Si registra interesse da parte sia della sinistra che del vicepresidente della Commissione Lavoro della Camera, Giuliano Cazzola. I dettagli sono da discutere, ma una riforma di questo tipo potrebbe dare ai giovani speranza oltre la crisi e preparare l’Italia alle dure sfide della competitività internazionale con una maggiore coesione”.

 

L’urgenza delle liberalizzazioni

“Se per esempio si intende proporre modifiche all’art. 41 della Costituzione, si argomenti perché lo si ritiene opportuno, eventualmente nel quadro di altre modifiche. Ma non si presenti questa come condizione necessaria, o quasi, per introdurre liberalizzazioni. Altri governi hanno introdotto varie liberalizzazioni pur in vigenza di tale articolo. Del resto, il governo attuale ha denunciato l’art. 41 come ostacolo alle liberalizzazioni solo l’anno scorso, benché il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia e delle Finanze abbiano avuto modo di misurarsi con questa tematica dal 1994. Se si vuole essere seri sulle liberalizzazioni, si rivisiti pure la Costituzione, ma prima ancora si visiti Atene. Il 21 gennaio il governo Papandreou ha adottato una riforma di quelle che i Greci chiamano correttamente le ‘professioni chiuse’ e noi pudicamente le ‘professioni liberali’. La riforma consiste nell’abolizione, per tutte le professioni, delle tariffe minime, del numero chiuso, delle restrizioni territoriali e del divieto di farsi concorrenza con la pubblicità. È lasciata agli ordini professionali la possibilità di dimostrare, ma avendo su di sé l’onere della prova, che l’una o l’altra di quelle restrizioni sono necessarie per la tutela di interessi pubblici, quali l’integrità nell’esercizio della professione o la tutela dei consumatori”.

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