Nulla cresce più in fretta della paura. Lo sanno bene gli operatori dei mercati finanziari, soprattutto i veterani che vantano alle spalle le battaglie sostenute ai tempi della crisi messicana, del default russo, della crisi asiatica, dello “sboom” della bolla Internet e della crisi subprime. Ma anche loro, di fronte ai rischi che sta attraversando l’area euro, non se la sentono di far ricorso alla propria esperienza: ormai il futuro è una terra straniera, incognita. E le esperienze passate di fronte ai monitor dei pc a osservare le evoluzioni dei titoli di Stato rischiano di servire a poco. Stavolta, infatti, è davvero diverso. In passato ci sono state situazioni di crisi di singoli stati commissariati dal Fmi o dalla Banca mondiale. Oppure, è il caso della crisi Lehman, uno o più stati hanno fatto fronte comune emettendo il credito necessario per fronteggiare la crisi di liquidità del sistema rinviando a epoca successiva l’onere dell’eventuale solvibilità. Niente di tutto questo, nel caso in questione. Da una parte l’Unione europea (non ha senso parlare della sola Italia comunque già troppo grande per essere salvata) non può essere commissariata. Dall’altra, i 17 Stati della zona euro (peggio ancora i 27 della Comunità) non dispongono di strumenti comuni abbastanza efficaci o rapidi per fronteggiare situazioni così estreme.



“C’è un problema di credibilità della zona euro – nota Maria Cannata -. Si deve accelerare con misure coraggiose. Ma per queste misure occorre l’accordo di tutti e questo richiede molto tempo: la democraticità porta a rallentamenti poco compatibili con una crisi che si è protratta un po’ troppo”. Di fronte all’isteria dei mercati, non c’è terapia migliore che affidarsi all’ottimismo della ragione di chi bazzica i mercati da sempre. Proprio come Maria Cannata, dirigente responsabile del debito pubblico italiano, una vita passata a gestire nel modo migliore il finanziamento del debito accumulato dallo Stato.



La Cannata non minimizza la gravità dei problemi, anzi. “Si è rotto un meccanismo – ha confessato davanti ai soci dell’Aiaf, l’associazione degli analisti finanziari – che vedeva nei titoli di Stato un porto sicuro. E ci vorrà molto tempo per ripararlo”. Ma guai a farsi sommergere dalle suggestioni emotive, magari avallate da numeri meno oggettivi di quel che appaiono. Prendiamo il nodo del finanziamento del debito. L’anno prossimo, ripetono i media, l’Italia deve fronteggiare rinnovi per 440 miliardi: una cifra enorme, non c’è che dire. Ma quanti si sono accorti che nel 2009 il Tesoro ne ha rinnovato per 530 miliardi? O quanti titoli di giornali sono stati dedicati al rinnovo dei 480 miliardi del 2010? Il debito pubblico italiano è un problema, certo. Ma non da ieri. E in questi anni non è stato sottovaluto.



Al contrario, il vero limite del ministro Tremonti è di aver pensato che la tenuta della diga del debito fosse la pietra filosofale capace di risolvere, di colpo, gli altri problemi a partire dallo sviluppo che sarebbe emerso per germinazione spontanea. Invece, gli sforzi titanici (tagli per 85 miliardi di euro in meno di 18 mesi) sono stati annullati da cento giorni di pressione finanziaria motivata dallo stock del debito, giunto al 120% del Pil. Nota, con perfidia postuma, Banca d’Italia che se l’Italia avesse avuto negli ultimi sei anni la stessa crescita del Belgio (Paese privo di governo per un paio d’anni), oggi il nostro debito pubblico sarebbe sotto quota 100%.

Ma l’illusione di Tremonti ha antenati illustri. Anche i padri fondatori dell’euro, Carlo Azeglio Ciampi in testa, sono stati vittime di un postulato indimostrabile: l’avvento della moneta unica, grazie al calo dei tassi, avrebbe innescato un circolo virtuoso di abbassamento del debito attraverso il minor onere per interessi, aumentando così le risorse a disposizione della crescita. Al contrario, i risparmi sono finiti in spesa corrente. E il rapporto debito/Pil (nonostante le privatizzazioni) è salito ai massimi storici.

La morale? Le battaglie esemplari non portano a grandi risultati se non sono inquadrate in un’effettiva riforma delle regole che abbassi i costi (politica, ma non solo) e liberi energie finora paralizzate dai veti incrociati delle lobbies. Ma questo è compito del “Monti team”, probabilmente l’unico attrezzato per una sfida del genere. Il problema è che, a questo punto, un’Italia incamminata su un sentiero virtuoso è condizione necessaria, ma tutt’altro che sufficiente, per un’Europa soffocata dalle regole e da un eccesso di democrazia che, al solito, porta all’esatto opposto. Un sistema soffocato dalle regole, afflitto da una bozza di Costituzione di 884 pagine che non riesce ad approvare, risulta incapace, come scrive Alessandro Fugnoli, di decidere “su qualcosa che non sia la forma di una pizza e la lunghezza di un cetriolo”. Ovvero, non può che consegnare il potere di ultima istanza al direttorio franco-tedesco e al potere discrezionale della Bce dominato da regole scritte e tacite made in Germany.

È stata la Germania ad aver insistito per il sacrificio “volontario” delle banche sul debito di Atene, cosa che ha svuotato di valore la copertura assicurativa dei cds e, di riflesso, ha indotto le banche a disfarsi dei Btp. Intanto, le nuove regole sul capitale bancario decise dall’Eba scarica sulle banche che hanno ancora in magazzino titoli italiani l’onere di rafforzare il capitale per far fronte alla svalutazione dei titoli. Di fronte a quest’evoluzione della crisi reale, maturata in assenza di una regia europea condivisa, l’Italia si è trovata condannata a una terapia di tasse, tagli, recessione e aumento degli spread che, colmo dell’ironia, giustificheranno nuove prediche.

Un circuito vizioso da cui non si uscirà tanto in fretta, inutile farci illusioni. Forse, qualcosa cambierà dal 9 dicembre, quando farà un passo in avanti il regolamento che prevede bilanci standard unificati per tutti gli Stati (da approvare dall’Ue), passo decisivo per rendere ideologicamente praticabile agli occhi della Corte Costituzionale tedesca la via degli eurobond. Nel frattempo la strada è segnata: le banche, spaventano, non prestano soldi ma parchegiano i propri fondi presso la Bce (lunedì i depositi hanno toccato i 298 miliardi) che paga loro un interesse dello 0,5%.

In cambio, Draghi compra titoli italiani che rendono il 7%. I contribuenti italiani pagano questa ricca cedola, la banca fa un ottimo guadagno e incamera fondi che sostengono l’euro a livelli innaturalmente alti. Fuori si recita un film catastrofe, “la fine dell’euro”. Italiani e spagnoli pagano il biglietto, Parigi spera di entrar gratis (come non è successo ai portoghesi). I produttori di Francoforte guardano soddisfatti il botteghino.

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