di Antonio Quaglio, Caporedattore Il Sole 24 Ore
 

La crisi finanziaria degenerata in recessione tra Europa e America non ha distrutto soltanto risparmi, credito, bilanci statali, imprese, occupazione: ha cancellato soprattutto la “fiducia”, sui mercati e oltre. Hanno cominciato le banche a non fidarsi più le une delle altre e quindi a fidarsi sempre di meno delle aziende e delle famiglie a cui concedere prestiti. Ma anche i risparmiatori hanno preso a fidarsi meno delle banche e degli altri intermediari cui affidare il loro denaro. Hanno perso “merito di credito” gli stati (perfino gli Usa): quasi tutti hanno dovuto aiutare i sistemi bancari in difficoltà con ingenti sostegni pubblici; altri (come la Grecia) hanno fatto venire a galla l’insostenibilità dei loro conti; altri ancora – è il caso dell’Italia – si sono ritrovati zavorrati da vecchi debiti. In Europa, comunque, gli stati non si fidano più gli uni degli altri, mostrando le fragili fondamenta di un continente unito solo da una moneta. Poca fiducia (poca voglia di spendere) continuano a mostrare dal canto loro i consumatori; poca fiducia – poca voglia di investire e assumere – registra il campo degli imprenditori.



Senza fiducia non molto ha potuto fare lo stimolo – gigantesco ma puramente monetario – impresso dalla Fed sull’Azienda America: oltre 2.000 miliardi di dollari il primo intervento, 600 miliardi il secondo, in attesa di un probabile terzo. Senza fiducia – senza “fides” – la ripresa sembra avere quindi poca “speranza”. Senza un’effettiva ricostruzione del “credito” – senza il ripristino di un rapporto ultimo tra persone che “credono” anzitutto le une nelle altre – la tecnica economica mostra prospettive limitate.



Obbligare le banche “troppo grandi per fallire” ad aumentare in fretta i loro patrimoni è certamente una misura corretta, così come varare politiche di austerità fiscale nei paesi più esposti alla speculazione sui titoli sovrani. Ma nessuna “politica”, nessuna “istituzione”, neppure con intento dichiarato di “bene comune”, può più avere la pretesa che è stata fatale alla finanza globale: giocare con ciò che è nei cuori delle persone: Manovrare in via egemone e autoreferenziale la loro libertà, compresa quella di essere “in crisi”; compresa quella di cercare vie per uscire da quella crisi, compresa quella di scoprire che il cosiddetto “libero mercato” si era ridotto a uno spazio-tempo di solitudine, sfiducia, non-libertà.



“Dove trionfa l’individualismo, cioè l’assenza di legami, la persona si trova pericolosamente sguarnita di fronte alle pretese del potente di turno, sia egli economico, sociale o politico. Isolare gli uomini l’uno dall’altro è uno dei sistemi più efficaci per dominarli”. L’analisi culturale di don Julian Carron, ieri all’assemblea della Compagnia delle Opere, è andata diritto alla radice della crisi: ad esempio, quella dei “mutui subprime”, detonatore del collasso dei mercati nel 2007-2008. “Isolato e sguarnito” – anzitutto in termini educativi – si è ritrovato chi si è visto offrire la casa dei suoi sogni gratis, “perché i soldi li mette la banca”. Ma “isolato e sguarnito” era anche chi quei soldi in realtà li ha messi, depositandoli presso la sua banca, magari in un altro continente. “Senza legami” sono risultate le banche che hanno costruito l’operazione. “Isolate” sono rimaste nei fatti anche le autorità di vigilanza, che avevano perso il contatto con la loro realtà. Drammaticamente “isolata” si è ritrovata una finanza completamente alienata dall’economia reale e privata della ragionevolezza che solo l’approccio della sussidiarietà fornisce a una “società economica”.

La rigenerazione della fiducia – risorsa scarsa e strategica – è quindi secondo Carron in relazione stretta con la ricostruzione di un’autentica coscienza di libertà: non una “libertà che si crea da sé” (come ha denunciato Benedetto XVI al Parlamento tedesco), ma una “libertà come appartenenza a un popolo”. Di fronte al fallimento del globalismo finanziario – o quanto meno a una sua crisi strutturale – Carron rammenta quindi l’antico suggerimento di ricercare “la libertà dell’io nel noi”, proprio sia della dottrina sociale della Chiesa che dell’insegnamento di don Giussani (e della tradizione di cultura imprenditoriale della Cdo). È nella libertà-responsabilità dei rapporti reciproci (tra generazioni, tra cittadini-contribuenti, tra elettori e rappresentanti democratici, tra imprenditori e lavoratori e anche tra risparmiatori e mercato) che un “popolo” – ad esempio, quello italiano – riscopre asset fortemente “tangibili”, anche se molti economisti sostengono il contrario, essendo fiducia e libertà irriducibili all’analisi quantitativa.

Non sorprende affatto di ritrovare nel binomio fiducia-libertà la vera agenda del nuovo governo: un esecutivo, quello guidato da Mario Monti sotto la regia del presidente Giorgio Napolitano – che muove i suoi primi passi anche sulle orme di una “libera” esperienza parlamentare come l’Intergruppo per la Sussidiarietà.

La declinazione operativa della spirale libertà-fiducia è ovviamente ancora tutta da scrivere e non è sfuggito – nell’intervento del presidente della Cdo, Bernhard Scholz – la simmetria critica tra finanza privata e finanza pubblica, entrambe in deficit di fiducia perché ambedue andate in eccesso di libertà. Ma è certo che nessuno dei dossier sul tavolo di Monti e dei suoi tecnici – dalla riduzione del debito pubblico al “patto generazionale” su pensioni e occupazione giovanile – ha reali “chance” di successo se non vengono iscritte nelle coordinate culturali della crisi come sfida personale della speranza come libertà.

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