«Se delle risorse vengono prelevate al privato tramite la pressione fiscale, queste possono essere riutilizzate, per esempio, per diversi investimenti nel pubblico. Il problema è che quei soldi che escono dalle tasche degli italiani non devono essere sperperati nel pubblico, in costi inutili, inefficienze e così via, ma a sostegno dell’economia. Per quanto riguarda invece il debito pubblico, adesso il Paese deve per forza rientrare perché lo vuole l’Europa, e in un certo senso è anche un bene, e di conseguenza questo diventa l’obiettivo primario indipendentemente dallo sviluppo economico: dobbiamo spendere meno a livello pubblico, dopo di che per stimolare lo sviluppo, occorre non effettuare tagli lineari come abbiamo fatto fino a oggi con Tremonti, ma è necessario eliminare tutta quella parte delle spese che risulta inefficiente e che quindi rappresenta un rischio agli occhi dell’Europa e contemporaneamente non produce assolutamente nulla per lo sviluppo economico. Il problema è che è facilissimo dirlo, ma meno farlo, e per questo capisco perfettamente la scelta di Tremonti di qualche tempo fa: se non avesse effettuato dei tagli lineari ci sarebbero state così tante discussioni e compromessi politici che alla fine non avrebbero portato a niente». IlSussidiario.net affronta insieme a Paolo Preti, Professore di Organizzazione delle Piccole e Medie Imprese presso l’Università Bocconi di Milano, un discorso a tutto tondo sull’economia italiana, il nuovo governo tecnico, il debito pubblico, le risorse e le peculiarità di un Paese che sta tentando in ogni modo di risalire la china.
Professore, quindi a suo avviso il primo provvedimento strutturale atteso dal governo Monti come andrebbe opportunamente strutturato?
È chiaro che l’idea di Monti di far pagare chi finora ha dato di meno, come gli evasori, è stupenda, ma se per trovare gli evasori è necessario aumentare la Guardia di Finanza di tremila unità, forse alla fine il gioco non vale la candela. Le linee di principio basate su tagli e crescita di Monti sono perfette, e per questo bisogna dargli merito, ma naturalmente ogni scelta avrà dei pro e dei contro. La fortuna di un governo come questo è che ha nella propria maggioranza, fatta eccezione per la Lega, sia la destra che la sinistra, quindi potrà permettersi delle misure che scontentino gli elettori del centrodestra e altre che scontentino gli elettori del centrosinistra, in modo che poi in Parlamento possa rispondere a tono a chi si oppone a certe misure.
Al ministro Passera è stata di fatto affidata la “politica economica interna”: secondo lei, quali sono le priorità della sua agenda?
Innanzitutto vorrei sottolineare il vero conflitto di interessi in cui vive strutturalmente questo ministro e da cui non si salva certamente rassegnando le dimissioni dal ruolo in Banca Intesa. Detto questo, il fatto che il suo ministero comprenda sia lo sviluppo economico che le infrastrutture, e il fatto che sia stato proprio lui a chiedere espressamente questa unificazione dei ministeri, ci fa capire come intenda probabilmente favorire lo sviluppo economico investendo in infrastrutture, quindi uno sviluppo fatto maggiormente con risorse dello Stato che con risorse private.
Secondo lei, è immaginabile un’azione diretta nel settore privato attraverso sgravi e agevolazioni all’impresa?
Sono dell’idea che le imprese non vadano incentivate e che le varie politiche industriali in un Paese come il nostro a forte imprenditorialità diffusa dal basso debbano essere del “togliere” e non del “fare”. Più che dare incentivi, la politica industriale dovrebbe quindi togliere vincoli al fare impresa, e in questo senso l’importanza dell’approvazione dello Statuto delle imprese pochi giorni prima della caduta del governo è stata sottolineata troppo poco, probabilmente perché arrivata nel caos generale. Quella è però la strada.
Qual è a suo avviso il ruolo del sistema bancario a supporto della ripresa?
È il ruolo storico: dare e garantire liquidità alle imprese a un costo accettabile, e anche su questo è probabilmente più facile dirlo che farlo, e capisco che le banche possano fare fatica per tanti motivi, ma il compito è proprio questo, ricercando anche di valorizzare il progetto industriale delle aziende.
Qual è il suo giudizio sulla diatriba tra Sergio D’Antoni e Pietro Ichino sul contratto unico a due anni? In questo modo si precarizzano i lavoratori a contratto a tempo indeterminato o si stabilizzano i precari?
È più probabile che capiti la prima cosa, perché stabilizzare i precari con un contratto a due anni non è possibile. Oltre le posizioni, mi interessa comunque sottolineare che si tratta di un dibattito interessantissimo e che va approfondito, soprattutto perché entrambi sono del centrosinistra e stanno lavorando su un fronte molto esposto.
Da questo punto di vista vede necessarie misure specifiche per le Pmi?
Trovo l’apprendistato appena votato utilissimo sotto due punti di vista: innanzitutto, per favorire l’apprendimento di un lavoro manuale per i giovani precari, in cui l’Italia è in grado di dare molta occupazione attraverso le imprese artigiane, che rappresentano quindi le piccole dimensioni. Ben venga quindi che i giovani si laureino, ma con un investimento su di sé, sulla persona, e non esclusivamente per una futura occupazione. Inoltre, l’apprendistato può sicuramente facilitare anche parte della soluzione del precariato, perché effettivamente tra le imprese artigiane di lavoro ce n’è molto. Per il resto non vedo una peculiarità delle Pmi in termini di contrattualistica di lavoro, anche perché l’imprenditore di piccola o media dimensione opera in una realtà in cui conosce benissimo i suoi collaboratori, quindi dopo i classici sei mesi di prova è probabilmente più la grande impresa ad aver bisogno di una flessibilità del lavoro maggiore.
Un’ultima domanda: a suo avviso, come influisce il comportamento della Fiat dal punto di vista dei contratti ai dipendenti sui rapporti di lavoro imprenditore/lavoratore nelle Pmi?
Sono due mondi completamente diversi: mentre il tipo di lavoro in Fiat fa sì che il dipendente guardi molto di più alla sicurezza di un posto di lavoro, e sia per quello disposto a rinunciare a parte dei diritti conquistati, nella piccola impresa il conflitto capitale-lavoro non è mai esistito, perché fondamentalmente si è tutti sulla stessa barca con responsabilità diverse. Credo che al di là di qualche eccezione, quello che sta succedendo in Fiat dal punto di vista contrattualistico interessi ben poco la grande maggioranza dei piccoli e medi imprenditori italiani perché, come detto, sono due mondi totalmente differenti.
(Claudio Perlini)