Il dibattito continua. Per il capo dello Stato non concedere la cittadinanza italiana automatica ai figli degli stranieri nati nel nostro Paese è «un’autentica follia». Per alcuni, del resto, gli immigrati contribuirebbero al bilancio dello Stato, più di quanto lo Stato non spenda per loro. Le tasse che pagano, infatti, determinerebbero un gettito superiore al costo dei servizi di cui fruiscono. Accedono al sistema sanitario, ma, per lo più, non percepiscono la pensione essendo in gran parte giovani. «Se prendiamo in esame la distribuzione demografica degli stranieri, il dato mi sembra estremamente plausibile», spiega, contattato da ilSussidiario.net Daniele Marini, Docente di Sociologia dei processi economici all’Università di Padova. I numeri confermerebbero l’ipotesi: «Abbiamo, in Italia, un tasso di immigrazione che si attesta attorno al 6-7%. All’interno, tuttavia, di questa presenza, la distribuzione per età non è omogenea. Due fasce, in particolare, raggiungono un picco: i bambini e i lavoratori adulti, quelli compresi tra i 30 e i 50 anni. Sono molto meno presenti le altre due fasce, ovvero gli anziani e quelli compresi tra l’adolescenza e l’età adulta».
Per capire perché potrebbero contribuire al Paese in termini economici, occorre comprendere le dinamiche del fenomeno. «La presenza degli immigrati ha inizio a partire dagli anni ’80. E oggi, gli studi sui flussi migratori descrivono una fase di assestamento. Si è superato il periodo in cui il capofamiglia, o uno dei figli si recava in Italia e pian piano richiamava anche gli altri parenti. Si è giunti allo stadio successivo, quello della sedimentazione». Tant’è vero che Marini sottolinea come alcune previsioni di inizio crisi si siano rivelata sbagliate. «Si pensava che gli immigrati avrebbero abbandonato in massa il Paese per assenza di lavoro. Ma non si era tenuto conto del fatto che hanno, ormai, assunto strategie residenziali. Hanno, magari, un mutuo da pagare anche loro, un lavoro stabile e una famiglia da mantenere».
Che siano necessari al mercato del lavoro, è cosa risaputa. «Lo sono anche, tuttavia – aggiunge – alla struttura stessa della popolazione, senza i quali non reggerebbe. Come è noto, in Italia si fanno sempre meno figli e ci sono sempre più anziani. Nello stesso Mezzogiorno, fino a poco tempo fa l’unica zona della Penisola in cui nascevano nuove generazioni, è iniziato il declino demografico. Riempiono, quindi, i vuoti della base della società. E contribuiscono al pagamento delle pensioni». Fin qui si è parlato di stranieri regolari, che regolarmente pagano le tasse. Ovvio che, quindi, si ponga un problema relativo ai clandestini.
«I dati ci dicono che al Nord ci sono molti meno irregolari. Questo perché, nel momento stesso in cui accedono al mercato del lavoro, di norma gli viene richiesto di regolarizzare la propria posizione. Al Sud, al contrario, tendono a prevalere situazioni di sommerso». Un’altra questione decisiva, relativa all’interesse nazionale e, contestualmente, alla concessione della cittadinanza, è quella dell’integrazione. Non basta, infatti, essere formalmente italiani, alla nascita, per esserlo realmente. «Più si lavora sul tema dell’integrazione culturale, meglio è. Un buon punto di partenza – conclude Marini – sarebbe l’obbligo, ad esempio, della conoscenza della lingua italiana e dei fondamenti della Costituzione che sono la base del nostro vivere civile».