Non ho mai creduto che l’arretratezza economica dell’Italia fosse da addebitare esclusivamente a politici incapaci e sindacati corporativi. Ho sempre pensato che si trattasse di una favola alimentata da chi è poco incline a notare, denunciare e correggere le arretratezze di un’altra componente fondamentale della cosiddetta società civile: gli imprenditori privati. Da questa considerazione, circa due anni e mezzo fa, ho iniziato un lungo viaggio nel cuore del sistema economico italiano degli ultimi 10-15 anni seguendo una particolare traccia: quella degli aiuti di Stato. Ho voluto capire come mai, nonostante i sussidi alle imprese private assommino annualmente a circa 30 miliardi di euro, il sistema industriale non riusciva a produrre quella ricchezza che ci si sarebbe dovuti attendere da un tale diluvio di aiuti di Stato. E come mai alla verifica finale sull’utilizzo dei soldi pubblici, i risultati mostrati dagli imprenditori assistiti fossero stabilmente inferiori a quanto si era preventivato (in termini di occupazione, soprattutto). Ho cercato di dare (e darmi) una risposta alla semplice domanda: la classe imprenditoriale è responsabile del declino italiano? Così, affidandomi esclusivamente a documenti ufficiali (Gazzette europee, italiane, regionali, rapporti della Corte dei Conti, controversie presso l’Antitrust europeo, studi della Corte dei Conti e carte giudiziarie), alla fine, come direbbe Blade Runner, “ho visto cose che voi umani…”.



La prima evidenza che emergeva mentre scrivevo “Mani Bucate” è che i sussidi alle imprese hanno effetti molto vicini allo zero (parola, tra gli altri, di Mario Draghi). La seconda evidenza è che in Italia esistono più di 1.400 leggi (tra nazionali e regionali, ma la stima è “conservativa”) che distribuiscono finanziamenti pubblici alle imprese private e che questa massa legislativa ha creato un caos nel quale perfino la Corte dei Conti non riesce a districarsi. La terza evidenza è che in Italia i soldi vengono dati a chiunque: alle aziende che vanno bene, ma anche a quelle in crisi; a quelle piccole e a quelle grandi (Fiat, Marcegaglia, Pirelli, Olivetti, Stm solo per citare alcuni nomi); per sviluppare un’area industriale, ma anche per dismetterla.



In altre parole: lo Stato paga gli imprenditori privati (e, per la prima volta, è possibile sapere chi e quanto ha incassato), invece di regolarne l’attività economica. Spreca risorse in milioni di interventi (ogni anno le imprese che incassano fondi europei sono oltre 140.000), senza mai definire alcun progetto strategico. Ciò significa rinunciare al proprio ruolo che è quello di “creatore” di un ambiente economico nel quale ogni persona possa trovare terreno fertile per la propria impresa. Lo Stato, nel suo rapporto con l’imprenditoria privata, è un Bancomat che crede di realizzare quella che viene erroneamente definita “politica industriale” semplicemente erogando sussidi.



Un solo esempio, tra i centinaia che cito in “Mani bucate”: per l’industrializzazione della Sardegna centrale lo Stato ha speso oltre 5 miliardi di euro in aiuti alle imprese e non ha realizzato un solo metro di autostrada. Tra l’altro le imprese che hanno incassato quei sussidi sono le stesse (Eurallumina, Vilnys, Ottana, ecc.) che hanno chiuso (lasciando problemi sociali ingestibili) non appena l’Ue ha imposto all’Italia di interrompere l’erogazione.

Ho passato mesi, poi, sulle carte ufficiali riguardanti l’applicazione degli strumenti della Npr, Nuova politica regionale (Patti territoriali, Contratti d’area, ecc.) che coinvolgono le realtà locali (imprenditori, sindacati e politici) nella gestione di fondi europei o statali. Il giudizio della Corte dei Conti su questi strumenti “sussidiari” è talmente disastroso da imporre una profonda riflessione sui motivi che li hanno fatto fallire.

La prima riflessione non è che la sussidiarietà è fallita, ma che ne occorre di più. Occorre strappare dalle mani dei politici (per la cui formazione culturale e tecnica occorre fare ancora molta strada) e dei sindacati la gestione delle risorse e consegnarla a chi può essere giudicato sulla base dei risultati effettivamente raggiunti. Troppo spesso, infatti, il politico bravo, specie nel Mezzogiorno, è colui che “spende tanto”, non colui che “spende bene”. Più sussidiarietà significa aumentare, in numero e in quantità, le esperienze già esistenti di gestione dei fondi pubblici da parte di realtà locali (associazioni o società private) che possono essere valutate e premiate sulla base dei risultati e non sulla base della quantità di denaro erogato.

In caso contrario, dovremo abituarci ai disastri di uno Stato che, volendo fare il “buono” (nella meno maligna delle interpretazioni) fa in realtà emergere gli imprenditori peggiori, spreca risorse pubbliche, distrugge capitale sociale e arriva perfino a sostenere le imprese mafiose. Il risultato è che l’economia italiana non è liberale, non è pianificata, è semplicemente sussidiata.