Eurobond, Btp, spread: sono alcuni dei termini con i quali, loro malgrado, la stragrande maggioranza degli italiani ha dovuto iniziare a prendere dimestichezza. Tali vocaboli, infatti, sono divenuti a tutti gli effetti i principali protagonisti della crisi. Tra le soluzione che, sovente, da più parti, sono indicate per trascinarcene fuori, vi sono proprio gli Eurobond. Si tratta dell’ipotesi di emissioni, da parte di un’agenzia creata appositamente a livello europeo, di obbligazioni il cui rischio di solvenza sarebbe coperto dai singoli stati. Lo strumento è ancora oggetto di dibattito. Tra i suoi più strenui sostenitori vi è sempre stato l’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, mentre la Germania è il paese che, in assoluto, considera la proposta maggiormente inapplicabile. Gli stati virtuosi, infatti, si accollerebbero, di fatto, un rischio maggiore degli altri. Si parla, in particolare, di due generi differenti di obbligazione: Gli Euro Project Bond e gli Euro Union Bond. Del primo, su queste pagine, il professor Carlo Secchi, professore di Politica economica europea alla Bocconi, affermava: «Sono stati proposti dalla Commissione europea nel corso di un evento pubblico svoltosi il 10 aprile di quest’anno; si tratta di strumenti di finanziamento e garanzia per i grandi progetti infrastrutturali (nel campo dei trasporti, dell’energia e dell’Ict) incorporati nella proposta della Commissione relativa alle prospettive finanziarie 2014-2020 presentata il 19 di ottobre nell’ambito del nuovo fondo Connecting Europe Facility». Uno strumento che c’è, «si tratta solo di farlo decollare». I secondi, invece, li aveva descritti come uno «strumento di “comunitarizzazione” del debito»; un «nuovo fondo finanziario europeo avrà la possibilità di emettere titoli di credito e sostituirli con procedure e garanzie adeguate all’indebitamento degli stati singoli». Si era, inoltre, parlato di recente della possibilità di istituire gli”elite bond”: sembrava che Berlino fosse intenzionata a studiare emissioni congiunte con altri cinque paesi dotati della tripla A, all’interno della zona euro.
Tuttavia, il governo tedesco avrebbe già smentito una simile ipotesi. I Btp sono l’altro concetto con il quale si è entrati in confidenza. Si tratta di un acronimo che significa Buono del Tesoro Poliennale e consiste in «titoli di debito – spiega Bankitalia – emessi dallo Stato a tasso fisso. Hanno scadenza compresa tra 2 e 30 anni e il pagamento degli interessi, chiamato “stacco cedola”, avviene con cadenza semestrale». Rappresenta una della modalità con le quali uno Stato è solito finanziare le proprie attività. In sostanza, è un prestito che si chiede agli investitori in cambio della corrispondenza di un certo interesse. Che, se diventa troppo altro, per lo Stato si rileva un enorme problema. L’interesse corrisponde, dal punto di vista del cittadino, al rendimento, mentre lo spread misura la capacità dello Stato di onorare il proprio debito. In particolare, lo spread è dato dalla differenza tra il rendimento di un Paese considerato a rischio default e quello di un Paese considerato sicuro.
Di norma tali caratteristiche vengono attribuite alla Germania, mentre i titoli che si è soliti mettere a confronto sono i Btp a scadenza decennale con titoli tedeschi analoghi con la medesima scadenza. Se, ad esempio, i titoli italiani rendono il 6,5% e quelli tedeschi il 2,5%, lo spread sarà dato dal primo meno il secondo (6,5% – 2,5%) e corrisponderà al 4,5% o a 450 punti base. Più tale valore è alto, più lo Stato è a rischio. Se gli investitori, infatti, temono il crack, cala la domanda di Btp, e aumenta il rendimento. Se la forbice diventa troppo ampia, il rischio è che lo Stato non sia più in grado di pagare i nuovi interessi dei nuovi Btp (grazie agli incassi dei vecchi) né di finanziare le proprie attività per la necessità di onorare, anzitutto, tali interessi