C’era una volta il Governo Berlusconi. Un esecutivo parecchio scombiccherato. Con un ministro dell’Economia da tutti odiato, che con il rigore nei conti pubblici e un bel po’ di miliardi aggiuntivi alla cassa integrazione ha pensato di tenere quanto più possibile l’Italia lontana dalla buriana della crisi. E con un Premier, surriscaldato da parecchi suoi ministri e consiglieri, che riteneva che sì, certo, il titolare del Tesoro faceva fare un’ottima e presentabile figura in Europa all’esecutivo italiano, ma che con la sua antipatica flemma recideva i consensi del Governo. L’idea del ministro dell’Economia era più o meno questa: se iniziamo a sbracare (più spesa o meno tasse) l’effetto di stimolo sull’economia sarà incerto, in presenza di una ripresa europea asfittica, mentre sarà quasi certo il messaggio indiretto, pessimo, che si darà ai mercati: addio rigore.



In estate, quando iniziano a essere chiari i rischi sui debiti sovrani europei, si avvia un doppio fuoco concentrico. Da un lato le istituzioni europee inducono i governi, compreso quello italiano, a rafforzare le misure di finanza pubblica. Dall’altro lato l’establishment italiano, dalle prime pagine dei grandi giornali che fanno opinione, inizia un coro che si trasforma presto in pensiero unico. Il pensiero unico si fonda su alcuni teoremi. Primo: il rigore non è più sufficiente, serve rinvigorire la crescita. Affermazione difficilmente contestabile. Secondo: per rinvigorire fin da subito la crescita servono liberalizzazioni, privatizzazioni e una riforma del fisco che sposti la tassazione dal lavoro e dalle società ai consumi e ai patrimoni. Pochi si pongono però un interrogativo: posto che queste misure sia condivise da tutti (e non lo sono), davvero si avrà un effetto immediato in termini di Pil? Alla domanda inizia a darsi una risposta positiva dall’inizio di agosto, quando la Bce invita l’esecutivo a varare proprio quelle riforme.



Da quel momento il tambureggiamento giornaliero degli editoriali di prima pagina dei grandi quotidiani nazionali diventa incessante. Il mantra di un decreto sviluppo panacea dei mali italiani, e vero antidoto al progressivo aumento dei tassi di interesse che lo Stato paga sul debito pubblico, diventa ossessivo. Con un Governo, diviso e squassato, che traccheggia nel varare le innovazioni indicate dalla Bce (anche se un ministro vicino al Premier, salvo poi rimangiarsi la tesi, scrisse subito dopo la lettera della Bce che nove dei dieci punti della missiva era già stati adottati dal Governo, e forse non aveva tutti i torti), dopo aver approvato misure di finanza pubblica per un centinaio di miliardi di euro, da settembre-ottobre inizia un altro tormentone.



I grandi quotidiani nazionali non insistono più sulla crescita come antidoto alla crisi, non invocano più soltanto il trinomio liberalizzazioni-privatizzazioni-riforma del fisco, ma spostano l’attenzione su un fattore personale: la credibilità ormai azzerata del Premier a livello europeo e internazionale. Traduzione: il Presidente del Consiglio, anche per il Bunga-Bunga, non è più ritenuto all’altezza di guidare un Governo, anzi è un vero e proprio zimbello per il mondo e i mercati, ecco perché lo spread fra i Btp italiani e i Bund tedeschi continua a schizzare. Insomma: “Fate presto”, come da titolo cubitale di un grande quotidiano.

Presto è stato fatto: il Governo Berlusconi è stato sostituito dal Governo Monti. La credibilità internazionale è stata quindi ripristinata. Lo spread? È sempre intorno ai 500 punti di base. E che cosa dicono adesso i cantori del pensiero unico dalle prime pagine del grandi quotidiani nazionali? Che il problema dell’Italia è la mancanza di crescita? Che serve la triade liberalizzazioni-privatizzazioni-patrimoniale? Che serve un decreto sviluppo? No. I cantori sono sempre gli stessi, tranne uno che si è spostato a Palazzo Chigi, ma la linea editoriale è cambiata. Il pensiero unico adesso è un altro. Lo spread non diminuisce significativamente? Il problema non è l’Italia che cresce poco, che non liberalizza, che non privatizza, che non riduce la tassazione, che non abolisce l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che non taglia le pensioni di anzianità, che non aumenta l’età di pensionamento, che non licenzia i pubblici dipendenti, che non riduce lo stipendio agli statali. No.

Il problema non è più l’Italia. Il problema è l’Europa. Sì, proprio così. I giornaloni hanno deciso, tra un Governo e un altro, che sono le istituzioni europee che non riescono a fronteggiare la crisi, che non mettono le risorse previste per il Fondo salva-stati, che la Bce non fa quello che dovrebbe, ossia diventare prestatore di ultima istanza. Ossia garante dei debiti pubblici degli stati europei. Ovvero la Banca centrale europea deve annunciare ai mercati di essere pronta ad acquistare illimitatamente i titoli statali che il mercato non compra più. Solo così i mercati finiranno di attaccare i titoli di stato dei paesi europei.

Insomma, semplificando adesso il mantra è questo: l’incancrenirsi della crisi in Europa è colpa delle istituzioni europee pasticcione e inconcludenti, della Germania ultrarigorista che costringe gli stati a fare politiche recessione e della Bce che non deve pensare solo alla stabilità dei prezzi ma anche alla stabilità degli stati e delle banche.

La crescita, il decreto sviluppo e le liberalizzazioni possono attendere.

 

twitter@Michele_Arnese

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