Il dibattito sulle attese suscitate dal Governo Monti e sui programmi concreti che attuerà è stato sinora limitato agli aspetti macroeconomici e ai punti sollevati nello scambio di lettere tra Governo Berlusconi e autorità europee. Lo stesso ministro del Lavoro e degli Affari sociali ha tenuto a precisare che non è in programma un riassetto del sistema previdenziale, ma una manutenzione straordinaria della serie di riforme iniziate nel 1995 con il passaggio dal sistema retributivo al sistema contributivo per il calcolo delle spettanze.
Occorre, però, porsi una domanda: si possono effettuare riassetti di lungo periodo alla finanza pubblica e alla macroeconomia se non si ripensa il welfare? O si rischia di prendere misure di breve periodo destinate a portare sollievo ai conti pubblici per due-tre anni (o magari anche un lustro) per tornare poi nei problemi di un tempo e trovarci ancora una volta alle prese con quella che James O’Connor chiamò “la crisi fiscale dello Stato”? James O’ Connor scriveva negli anni Settanta e ho allora criticato con rigore (credo) la terapia che proponeva. Tuttavia, la sua diagnosi è oggi ancora più attuale di ieri.
Come ripensare lo Stato sociale? Partendo da un verso di Shakespeare e dalla teoria economica. Ciò può sembrare paradossale; quindi, merita una spiegazione. Il verso di Shakespeare è quello centrale all’arringa di Porzia de Il Mercante di Venezia, un’arringa tutta ancorata su “the quality of mercy”. In italiano, “mercy” viene spesso tradotto “clemenza”; in inglese ha invece una sfumatura a metà strada tra “clemenza” e “misericordia” (il nome – attenzione – che nel Medioevo e nel Rinascimento avevano le agenzie di promozione sociale in buon parte d’Italia). La teoria economia ha due aspetti: uno definitorio e uno di politica economica proposto inizialmente da John Maynard Keynes in una prolusione pronunciata a Madrid nel 1930, ma spesso dimenticato.
Quello definitorio riguarda i beni e i servizi del welfare: sono “meritori” in senso tecnico, in quanto si riferiscono a “meriti” riconosciuti dalla collettività in vari stadi dell’evoluzione storico sociale (ad esempio, sino all’inizio del secolo scorso l’istruzione e la sanità erano considerate in gran misura beni “privati” e “di mercato” non “meritevoli” di intervento pubblico, mentre adesso sono tanto “meritevoli” che la prima è obbligatoria sino a 18 anni e per la seconda si è creato un servizio nazionale per tutti i residenti). Si dimentica spesso che buona parte dei beni e dei servizi “meritori” per avere “the quality of mercy” e massimizzare la loro efficacia devono essere “relazionari” ossia basati su una “relazione” tra le parti in causa: a scuola e in un’università si apprende meglio e di più se si stabilisce una buona “relazione” tra docenti e studenti, in sanità si cura meglio se il paziente ha una “relazione” di fiducia nei confronti del medico.
Andiamo ora a Keynes. Con preveggenza, nel 1930 a Madrid delineava un modo in cui il progresso tecnologico avrebbe consentito (nell’area atlantica) a ciascuno di soddisfare le proprie esigenze essenziali con tre ore di lavoro al giorno. Le conseguenze: o la crescita inarrestabile di “nuove esigenze” (anche di dubbia utilità) o una distribuzione iniqua delle ore di lavoro (moltissime per alcuni, disoccupazione per altri) o un tempo libero da riempire. Per non soffrire d’inedia, Keynes suggeriva con attività “meritorie” e “relazionali”.
Il cerchio si chiude. Possiamo evitare “la crisi sociale dello Stato” e le previsioni amare di Keynes se la “spending review” del welfare, centrale ai programmi nel nuovo Governo, non è solo un esercizio contabile volto a individuare sprechi e suggerire tagli. Deve portare a un passo indietro delle macchine burocratiche per farne fare uno avanti a quel lavoro volontario e semi-volontario organizzato da agenzie di promozione sociale. È una sfida che ci impegniamo a seguire e monitorare.