I giornali di ieri 4 novembre e di oggi 5 novembre danno grande rilievo all’annuncio di un’imminente missione del Fondo monetario internazionale (Fmi) in Italia e la presentano come una campana a morte per il Governo in carica. Ho una certa dimestichezza con le istituzioni finanziarie internazionali dette “di Bretton Wods”, perché ho fatto la mia prima carriera in Banca Mondiale. La Banca mi ha “prestato” in alcune occasioni al Fondo per missioni e studi in cui erano di rilievo materie (come la spesa sociale o i programmi d’investimento a lungo termine) in cui ero particolarmente competente. Di converso, ho spesso lavorato, in compiti specificatamente di Banca mondiale, fianco a fianco con “cugini” del Fondo datici in prestito dallo Fmi. Le due istituzioni erano nello stesso edificio quando il 15 settembre 1968 presi servizio in Banca mondiale; tre anni dopo, il Fmi si fece una casa propria, ma di rimpetto a quella della Banca.



Chiariamo alcuni punti. In primo luogo, l’articolo IV dello Statuto del Fondo prevede almeno una missione l’anno in ciascun Paese e consultazioni. In particolare, un bozza di poderoso rapporto viene predisposta a Washington prima della missione, aggiornata durante la missione (di durata, di solito, di due settimane) e presentata al Consiglio d’amministrazione del Fondo (che si riunisce tre volte la settimana, a differenza di quello della Banca che ha di norma un sessione la settimana) unitamente a una “lettera d’intenti” (se del caso) in cui il Governo del Paese in questione esprime i propri obiettivi e programmi di politica economica. Naturalmente, le “consultazioni” con pertinente missione diventano più frequenti se il Paese ha seri problemi e chiede finanziamenti al Fondo. Tra il 1965 e il 1972 (smottamento e fine dell’area della sterlina) quasi ogni mese funzionari Fmi erano a Londra, tanto che presero in affitto una palazzina a Mayfair (che a volte utilizzai anche io nel quadro di missioni della Banca mondiale).



In secondo luogo, i prestiti Fmi riguardano principalmente il sostegno di disavanzi delle bilance dei pagamenti per sorreggere il cambio o facilitarne l’aggiustamento oppure la provvista di valuta estera per il riassetto strutturale. L’ultima volta che l’Italia via ha fatto ricorso è stato nella crisi valutaria della metà degli anni Settanta, parte a sua volta di un più vasto tsunami economico mondiale dopo il crollo del regime “di Bretton Woods” e il forte aumento dei prezzi del petrolio. Nella “congiuntura difficile” del 1964 si era pensato a chiedere il supporto finanziario del Fondo, ma tensioni all’interno della maggioranza fecero sì che si andò invece alla Banca mondiale per un prestito a rapida erogazione – la quinta linea di credito dell’istituto alla Cassa per il Mezzogiorno per l’acquisto di macchine utensili estere per Piccole e medie imprese (si era ancora in regime di restrizioni valutarie e controlli sui cambi).



La situazione della bilancia dei pagamenti dell’Italia ha esposto, negli ultimi 12 mesi, un disavanzo pari al 3,7% del Pil, un dato leggermente superiore a quelli segnati da Spagna e Austria, ma un terzo di quello della Grecia e non certo tale da indurre a pensare a una crisi. L’Italia ha indubbiamente esigenza di un profondo programma di riforme strutturali; il vincolo sono le leggi (soprattutto, l’Himalaya di norme da abolire e le poche nuove riforme da approvare) non la disponibilità di valuta.

In terzo luogo, la missione viene ufficialmente “su invito della Repubblica Italiana”. È possibile che si tratti di una mossa effettuata nella speranza di avere se non una benedizione almeno una pacca sulle spalle. È molto più probabile che l’invito nasconda una vigilanza più attenta, anche perché né la Commissione europea, né la Banca centrale europea dispongono di risorse umane ed esperienza analoghe a quelle del Fmi. In tal caso, l’esito potrebbe essere un addendum alla “lettera d’intenti” presentata a fine ottobre e misure più cogenti di quelle nel “maxi-emendamento” con annessi e connessi.

Il gran fumo che si sta facendo sulla visita dei Signori Fmi ha, però, un effetto non positivo: nasconde il vero anello mancante nel dibattito e nella “lettera d’intenti”: il debito pubblico. Ai titoli pari al 120% del Pil occorre aggiungere i debiti delle pubbliche amministrazioni nei confronti di imprese, famiglie e individui pari a un altro 6% del Pil, nonché parte del debito previdenziale (stimato a 150%-200% del Pil, ma in gran parte già incluso nel debito pubblico in senso stretto). Non possiamo consolidarlo in quanto siamo parte di un’unione monetaria. Non possiamo pulirlo con un’iniqua maxi inflazione ancora una volta a ragione delle regole dell’eurozona. Non possiamo liberarcene con una crescita vigorosa, perché il peso del fardello è uno degli elementi che ci frena. Non resta che sperare che al Fmi venga qualche buona idea.

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