A fine settembre 2011, i comuni della Baviera che battono moneta propria sono arrivati a sessanta. Fenomeni simili – alcuni seri, altri folcloristici – si riscontrano in Italia (il “fiorito” di Filettino, provincia di Frosinone), in Belgio (il “ropi” emesso dal comune di Mons) e in Francia (l’“abeille” di Villeneuve-sur-Lot, il “sol-violette” di Tolosa, tra gli altri). Tutte le valute seguono un corso legato all’euro: un fiorito, ad esempio, vale 50 centesimi di euro ed è emesso a fronte di una pari disponibilità in valuta europea da parte del comune emittente. In alcuni casi, si tratta di monete emesse a scopo sociale: in ropi, ad esempio, sono pagati gli abitanti di Mons che dedicano tempo e capacità a una scuola locale. I commercianti che aderiscono all’iniziativa accettano pagamenti in ropi (1 euro=1 ropi) e possono a loro volta compiere acquisti in valuta presso la rete di negozi aderenti al progetto. In alternativa, chi riceve un pagamento in ropi può riconvertire la moneta in euro, ottenendo però il 95% del valore nominale (1 ropi=0,95 euro). Il restante 5% è donato a un fondo locale che finanzia borse di studio.
Ancor più interessante è il meccanismo che regola il “chiemgauer”, emesso presso il comune bavarese di Prien am Chiemsee: questa moneta ha una data di scadenza. In pratica, ogni banconota ha valore effettivo per soli tre mesi, allo scadere dei quali un 2% di commissione sul valore nominale è applicato per rinnovare di un altro trimestre la validità della moneta. Gli esperti di economia monetaria definiscono “demurrage” questa “tassazione sulla scadenza”. Si tratta di un meccanismo conosciuto da tempo, il cui massimo teorico fu Silvio Gessell, economista contemporaneo a Keynes.
Gli effetti di questo prelievo sono due: la massa circolante di moneta su base trimestrale è prevedibile e il possesso di denaro non permette rendite di posizione. Il meccanismo del demurrage è molto meno velleitario di quanto appaia a prima vista: con l’informatizzazione del sistema bancario, oggi una moneta “a scadenza” sarebbe gestibile anche su scala europea. Ma soprattutto, nel sistema keynesiano in cui viviamo, un meccanismo simile esiste già. È la tanto temuta inflazione, ovvero la perdita di potere d’acquisto. Per Keynes, però, è il mercato a regolare ogni aspetto della vita economica. Ed ecco che al posto di una tassa del 2%, nella finanza moderna l’inflazione è il risultato dell’incontro tra domanda e offerta di moneta.
La soluzione keynesiana ha indubbiamente dei vantaggi: l’equilibrio di mercato assicura un’allocazione efficiente delle risorse e, soprattutto, tali equilibri possono essere modificati con il mutamento di un semplice numero, quel tasso di interesse nominale che le banche centrali alterano (quasi sempre) con agilità. Anche la lista degli svantaggi offre argomenti importanti e tra questi l’esilio della moneta nella teoria economica è senza dubbio di grande attualità. Ad accompagnare l’euro, infatti, ci sono diciotto banche centrali nazionali, mercati finanziari sofisticati, organi di vigilanza ipertrofici e debiti pubblici a cifre astronomiche.
Solo un piccolo dettaglio sembra essere stato trascurato: per come è stato disegnato, nel solco del pensiero keynesiano, l’euro è una moneta che può fare a meno di noi. Ed è per questo che iniziative monetarie locali riscuotono un tale successo. Chiunque si interessi all’attualità economica sa di cosa sto scrivendo: il debito greco è a quota 340 miliardi di euro, l’esposizione di Francia e Germania verso l’economia ellenica è rispettivamente di 57 e 34 miliardi di euro e il fondo per la stabilità punta a raccogliere fino a duemila miliardi di euro.
Poi apro il mio portafoglio e scovo 15 euro. A quel punto, mi dico, piuttosto di una moneta lontana anni luce, meglio una valuta che – per mia scelta – finanzi borse di studio locali. Non si tratta di smantellare la finanza mondiale, di indignarsi o assumere agli altari dell’economia Silvio Gessell per poi trascinare Keynes nella polvere come fosse un dittatore caduto in disgrazia. Ciò di cui abbiamo bisogno, come risparmiatori, contribuenti, lavoratori ed elettori dell’Unione Europea – e in definitiva come uomini – è che la persona torni al centro del sistema economico. In tutti quegli aspetti immediati come, ad esempio, il soldo che circola nel nostro sistema e dunque nelle nostre tasche. E col soldo, i profitti che maturano dal suo impiego oculato.
L’euro, insomma, deve diventare la moneta dei risparmiatori e dei consumatori, del prestito all’impresa e del sostegno al territorio – tra cui borse di studio e supporto all’educazione sono il miglior investimento di lungo periodo. Le monete locali e il loro crescente successo indicano che scelte coraggiose anche in materia fiscale sono possibili: tra queste, una tassazione delle transazioni finanziarie è l’obiettivo più ambizioso. Con un rischio e una raccomandazione.
Il rischio è di finire in un cortocircuito tra burocrazia e speculazione, dove la prima rincorre una realtà troppo dinamica per essere regolata, mentre la seconda lucra copiosamente su ogni vuoto normativo. In questa situazione, che è poi l’ambiente finanziario in cui operiamo, il profitto crea inevitabilmente scandalo. E difatti Keynes chiede al mercato di verificarne l’efficienza, Marx e Gessel sognano di cancellarlo, il primo allocando ogni risorsa allo Stato, il secondo con un tasso di rendimento, che annullandosi ogni trimestre, diventa in definitiva pari a zero.
La raccomandazione. Portare le istanze di cambiamento (del tutto legittime) sulle piazze conduce immancabilmente alla ricerca di un capro espiatorio. Se i comuni o altre realtà “dal basso” sono in grado di produrre buone soluzioni, se una tassazione delle transazioni è praticabile, allora i luoghi dove farsi avanti esistono già e sono i parlamenti democraticamente eletti, l’Unione europea e nello specifico della finanza, il comitato di Basilea, le associazioni bancarie e la Bce. Solo su questa strada i miglioramenti potranno contribuire al bene comune, senza scorciatoie di sorta o inutili cacce agli untori. Insomma, anche i ricchi ridano.