La copertina della rivista “Time” celebra Sergio Marchionne come “l’uomo che ha salvato l’industria dell’auto”, grazie all’intervento di Fiat che ha scongiurato il fallimento di Chrysler. Per Fausto Bertinotti lo spostamento del baricentro di Fiat dall’Italia agli Stati Uniti ha portato però al “modello tragicamente regressivo di Pomigliano d’Arco e poi di Mirafiori”, emblema del secondo Marchionne che – secondo l’ex presidente della Camera – ha smentito tutte le premesse positive sotto cui pure era avvenuto il suo insediamento nel 2004.



Il “Time” celebra Marchionne con una copertina definendolo “salvatore dell’industria automobilistica”. E’ d’accordo?

Se il “Time” si riferisce agli Usa ha un fondamento, mentre se si riferisce all’Italia non ne ha alcuno.

Perché?

Chrysler, anche grazie a un intervento governativo di prima grandezza e a un’operazione internazionale come quella compiuta sotto la guida di Marchionne, indubbiamente sta riprendendosi nella corsa per la competitività. Laddove la Fiat sta perdendo precisamente per la ragione simmetrica: l’accordo che è stato fatto vede infatti il baricentro del gruppo automobilistico spostato sempre più verso gli Stati Uniti, per cui la Fiat è diventata da una multinazionale italiana a una multinazionale nordamericana.



Nel 2008, riferendosi a Sergio Marchionne nel corso di un’intervista, lei dichiarò: “Ho letto il suo libro. E ho trovato nel suo pensiero una grande lucidità: vede ciò che i neo-liberisti, apologeti della modernizzazione, non riescono a vedere”. Ripeterebbe quelle parole?

Il punto è che allo spostamento del baricentro di Fiat dall’Italia agli Stati Uniti ha corrisposto un mutamento radicale della filosofia e della guida manageriale di Marchionne. Se uno vuole fare il confronto, è sufficiente leggere da un lato il discorso che Marchionne fece all’Unione industriali di Torino poco dopo il suo insediamento. In quell’occasione dichiarò che la risorsa fondamentale di Fiat stava nei suoi lavoratori, che perciò non avrebbero mai corso il rischio di essere licenziati. Marchionne aggiunse che riteneva insensata qualunque misura di compressione dei salari e della dinamica dei diritti. Questo discorso aveva come corollario l’affermazione secondo cui Marchionne preferiva negoziare con i sindacati italiano ed europeo, Fiom compresa, visto che era uno dei protagonisti di quegli accordi, piuttosto che con quello americano.



Quindi che cosa è avvenuto?

Per comprenderlo basta confrontare questo primo Marchionne con il secondo, formato Chrysler, passato attraverso la proposta e poi il diktat del modello tragicamente regressivo di Pomigliano d’Arco e poi di Mirafiori. In questo secondo modello ci sono la chiusura degli stabilimenti, da Termini Imerese fino alla produzione di bus, e un allontanamento dal programma di investimenti che era stato promesso. In ogni caso questo secondo Marchionne non si caratterizza come un produttore di modelli di automobili e nemmeno come un innovatore, né del prodotto né del processo produttivo, ma invece come l’inventore di un sistema di relazioni industriali, che è quello che si è visto alla prova a Mirafiori e Pomigliano.

In pratica, in che cosa consiste il modello del secondo Marchionne?

Nell’adozione di sistemi industriali di una fabbrica non Union. E’ quindi un modello di relazioni sindacali che passa per la messa in discussione di tutte le conquiste realizzate, dalle pause, alla mensa, alla fascia di tempo necessaria per gli spostamenti, fino all’esclusione di qualunque sindacato che non accetti i diktat aziendali.

La decisione di chiudere Termini Imerese è stata dettata però dal fatto che lo stabilimento non era più sufficientemente produttivo. Un problema di gestione da parte di Fiat o una scelta sbagliata a monte nel voler costruire un impianto in quella zona?

Termini Imerese aveva senso in un sistema produttivo aziendale il cui baricentro era l’Italia, e in cui tutte le risorse italiane dovevano essere valorizzate. Compreso quindi lo stabilimento di Termini Imerese che fu progettato ben sapendo le difficoltà logistiche che avrebbe comportato, ma anche i vantaggi di credito che avrebbe generato nei confronti dei poteri pubblici. Nel momento in cui il baricentro dell’impegno Fiat si è spostato oltreoceano, la strategia è stata rivista e Fiat ha abbandonato questo come altri impianti del Paese.

L’uscita di Fiat da Confindustria nasce dall’immobilismo dell’associazione degli industriali o dalla volontà di Marchionne di non adeguarsi alle condizioni accettate da tutti gli altri imprenditori italiani?

Quello di Pomigliano è un modello incompatibile con il contratto nazionale di lavoro. Marchionne ha sostituito infatti un insieme di garanzie di civiltà del lavoro, con un’idea aziendalistica che negli Usa, portata alle estreme conseguenze, ha determinato il crollo del sindacato industriale. In Fiat però è inserito in una filosofia ancora più aggressiva, quella cioè di un’azienda che viene concepita come una macchina da guerra e all’interno della quale non c’è alcuno spazio per alcuna soggettività. A partire da quella del lavoratore che è deprivata di ogni cittadinanza perché quel nucleo produttivo espelle ogni contraddizione al suo interno, in quanto è impegnata a combattere una guerra mortale per la competitività. Questa concezione veramente regressiva dell’impresa conduce a concepire tutte le relazioni civili come dei lacci e lacciuoli da cui liberarsi.
Al punto che perfino i vincoli confindustriali sono considerati come un laccio da una cultura che ci riporta alle logiche della legge della giungla.

Come giudica il comportamento dei Cisl e Uil che, rispetto alla Fiom-Cgil, sono meno ostili al “modello Marchionne”?

Le scelte economiche del governo Monti sono un banco che mette a dura prova questa linea che soprattutto la Cisl ha costruito da lunghi anni. Fiat è stata l’estrema manifestazione di questa elaborazione di un nuovo sindacato, per il quale non ci sono spazi negoziali. Al contrario del patto sindacato-lavoratori del ciclo precedente, quello fordista-taylorista-keynesiano, che faceva corrispondere un riconoscimento di potere del sindacato con un miglioramento delle condizioni di lavoro, di vita e retributive da parte dei lavoratori. La Cisl è andata rivedendo questo patto, alla luce di quella che valuta come l’impossibilità di poterlo praticare nel capitalismo finanziario globalizzato, entro cui la contrattazione è una variabile dipendente della competitività. Per cui il sindacato può essere anche un registratore di una contrattazione peggiorativa dettata da questa istanza dominante dell’impresa.

Intende dire che la Cisl si è trasformato in un registratore nelle mani del “padrone” Marchionne?

Intendo dire che su questa linea si comprende il comportamento estremo di Fiat. Quello che al contrario non comprendo, tranne in quella posizione sotto ricatto nella quale hanno votato i lavoratori di Pomigliano, è perché si debba accettare la cancellazione dell’autonomia di quei sindacati che non firmano gli accordi e ai quali è negata qualsiasi presenza in fabbrica, con uno strappo clamoroso nei confronti dei principi costituzionali.

Che cosa ne pensa del rapporto controverso di Marchionne con l’Italia? E’ il segno di una maggiore apertura mentale all’internazionalizzazione, o una mancanza di attaccamento al proprio Paese?

Molto più semplicemente, è l’espressione di una scelta strategica. Marx ci ha insegnato che è inutile cercare di descrivere i comportamenti del capitalista secondo i parametri della morale o della vocazione culturale. Entrambe vanno lette alla luce di una visione strategica, che è quella proposta con estrema durezza da Marchionne, e si capisce in quella il suo comportamento.

Marchionne ha rimesso in sesto Fiat, ha poi acquisito la maggioranza di Chrysler…

Come dice scusi, che cosa avrebbe fatto Marchionne?

Ha rimesso in sesto la Fiat, non certo dal punto di vista sindacale ma almeno dei parametri strettamente economici.

Me ne dica uno per favore…

Dal punto di vista finanziario per esempio.

Ecco, appunto. In realtà Marchionne non ha rimesso a posto niente. Anzi, gli stabilimenti italiani sono ogni giorno più a rischio e con essi l’occupazione.

E’ però innegabile che oggi i bilanci Fiat sono in ordine, mentre prima che arrivasse Marchionne non lo erano.

Sì, sono in ordine come quelli di buona parte del capitale finanziario nel mondo. Ma il vero problema è l’occupazione. Un imprenditore si misura dai risultati di produzione e di occupazione, il resto sono fatti suoi.

(Pietro Vernizzi)