Da mesi si va ripetendo che l’unica vera terapia per il malato Italia consiste nella crescita. E su questo c’è un consenso quasi unanime, compresi gli interventi del professor Mario Monti quando si limitava a scrivere articoli su Il Corriere della Sera, compito assai meno arduo che redigere articolati di una manovra difficile, amara e sicuramente impopolare. Purtroppo, i provvedimenti di politica interna e gli accordi internazionali propinati all’economia italiana vanno in una direzione diversa, anzi opposta. La pressione fiscale effettiva, ci informa il Centro Studi della Confindustria, salirà il prossimo anno al 54%, se si tiene conto della decadenza di alcune esenzioni e sgravi a favore del sistema produttivo.
A fronte di questa cura da cavalli, non stupisce che il Prodotto interno lordo, dopo uno striminzito +0,5% per il 2011, sia destinato a scendere l’anno prossimo: -1,6%, sempre secondo la Confindustria. Ma la stima di viale dell’Astronomia si basa sulla presunzione che nei mesi dell’anno prossimo si registri una prima inversione di tendenza, tutta da dimostrare. Nel frattempo, la caduta del Pil sarà senz’altro più marcata: almeno il 2% su base annua nella prima parte del 2012. L’effetto sull’occupazione sarà rilevante: 291 mila disoccupati in più. Ma a questo si deve aggiungere l’incremento, ove possibile, delle ore di cassa integrazione e il limbo in cui si troveranno i lavoratori che, prima della manovra, sembravano destinati ai prepensionamenti.
Facile prevedere che questo comporterà un calo della fiducia delle famiglie, dei consumi e degli investimenti. Molti imiteranno la strategia di Sergio Marchionne, che, nella previsione di un calo della domanda, si concentrerà soprattutto nella difesa del “profit trading” che, in parole povere, vuol dire meno acquisti, meno investimenti e un uso aggressivo delle risorse finanziarie (fatti pagare prima che puoi e paga il più tardi possibile).
Si può nutrire un qualche ottimismo in una situazione del genere? Almeno ci si può provare. Tanto per cominciare, perché non è affatto un male che lo Stato cancelli esenzioni e aiuti settoriali. All’origine dei nostri mali c’è una macchina pubblica costosa e inefficiente che non sa gestire, tra l’altro, i quattrini se non sulla base del criterio della pressione delle lobbies. Una maggior avarizia in merito non può che favorire un’allocazione più efficiente delle risorse. Certo, non è questa la panacea dei problemi italiani. Ma è importante invertire la rotta delle spese senza prestare orecchio ai pianti delle categorie o delle corporazioni piuttosto che delle amministrazioni pubbliche: l’Italia ha un numero spropositato di dipendenti pubblici (circa 3,2 milioni di occupati) il cui aumento di costo in questi anni ha sempre superato l’inflazione o la crescita del Pil. Se non si inverte questa rotta, non sarà possibile un’effettiva ripresa.
Per questo, non fasciamoci la testa di fronte alla prospettiva di un calo del Pil, idolo spesso sopravvalutato. Giorgio Fuà nel 1993 proponeva di superare il concetto di Pil, che comprende attività di beni e servizi non vendibili (le multe dei vigili o le attività delle badanti, ma non delle casalinghe) con la nozione di prodotto sociale che “esclude in tutto o in parte le attività di servizio”. Insomma, usiamo le risorse a nostra disposizione, assai inferiori di un tempo, in un modo profittevole per la società senza gonfiare il debito con spese inutili, festival di dubbio gusto, mantenimento di strutture ridondanti magari con la scusa del federalismo.
C’è un altro di motivo di speranza. Il calo delle risorse a disposizione dell’economia, comprese le piccole e medie imprese che non vengono assistite dal sistema bancario, potrebbe finalmente aiutare a spezzare alcuni tabù. In questi anni si è molto parlato di crescita dimensionale delle imprese attraverso fusioni. Ma si è fatto davvero poco: l’unica strada intrapresa per aumentare la taglia delle imprese è passata dalle acquisizioni. O meglio, dall’uscita di scena di imprenditori decisi a cambiar vita.
A differenza di quel che accade in altri paesi, non esiste una cultura della governance che consenta di mettere assieme varie esperienze e varie culture con un processo disciplinato che coinvolga managers, azionisti e indipendenti. Dalle nostre parti ci si domanda fin da subito chi comanderà. La formula ha ritardato, e non di poco, l’evoluzione del nostro capitalismo. Molti, troppi imprenditori hanno pensato a vendere, comprarsi la barca e ingegnarsi a predisporre uno scudo fiscale piuttosto che garantire la continuità aziendale con scelte imprenditoriali che mettessero in discussione il loro ruolo di “padroni”, ma fornissero alle aziende le competenze e le armi finanziarie per competere nell’economia globale, dove un marchio forte (che impone grossi investimenti per affermarsi) è la precondizione. Oggi, di fronte a banche avare per necessità se non per scelta e in assenza di compratori (salvo i big della moda) forse l’Italia delle imprese riprenderà un cammino virtuoso, simile a quello intrapreso negli anni della crescita.
Certo, queste e altre iniziative virtuose non basteranno di sicuro se non maturerà una coscienza politica europea a livello delle attuali sfide. L’Italia ha sottoscritto un patto estremamente gravoso pur di restare in Europa. Ora pretende, a ragione, che la Germania stia ai patti, impegnando le proprie risorse a difesa del debito sovrano di casa nostra, condizione necessaria per difendere l’euro. Prima o poi frau Merkel dovrà acconsentire a un ruolo più aggressivo della Bce e del Fondo salva-Stati, nonostante le perplessità degli alleati di governo. Ma tocca a noi muoverci per primi: un’Italia virtuosa nella scelta delle spese e più coraggiosa sul fronte delle imprese servirà a far cadere le scuse pretestuose di chi, a nord delle Alpi, continua a ripetere “non possiamo abbassare la guardia, altrimenti gli italiani riprenderanno a spendere come prima”. Facciamo una bella smentita: con i fatti, non con le parole.